Il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha comunicato una lista di 49 persone e organizzazioni responsabili di violazioni dei diritti umani contro cui sono state decise sanzioni individuali, che si concretizzano prevalentemente nel congelamento di visti e del blocco delle attività finanziarie. «Un messaggio molto chiaro» ha dichiarato il ministro, per impedire a «coloro hanno le mani sporche di sangue, i teppisti e i despoti, gli scagnozzi e i dittatori» di entrare nel Regno Unito, di acquisire proprietà e riciclare denaro illecitamente accumulato. Nella lista nera ci sono 25 russi, coinvolti nelle persecuzioni e nella morte dell’avvocato Sergej Magnitsky, avvenuta in circostanze oscure in un carcere a Mosca il 16 novembre 2009, e 20 sauditi accusati di aver partecipato a vario titolo all’uccisione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, perpetrata all’interno dell’ambasciata saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018.

Inoltre, saranno soggetti a queste sanzioni anche due militari birmani, per aver partecipato alla persecuzione delle minoranze, in particolare dei Rohingya, e due organizzazioni attive in Corea del Nord coinvolte in violazioni dei diritti umani commesse nei campi di concentramento. Tra i nomi spiccano quelli del russo Aleksey Vasilyevich Anichin, ex viceministro dell’Interno, di Ahmed Hassan Mohammed Al Asiri, all’epoca del delitto Khashoggi vicecapo dei servizi segreti di Riad, e Min Aung Hlaing, comandante in capo delle forze armate birmane.

L’iniziativa inaugura una nuova fase della politica estera britannica, successiva alla Brexit, che si ispira alla cosiddetta Global Britain, facendo intuire un nuovo protagonismo al di fuori di istituzioni collettive, con una forte assertività sul tema dei diritti umani, che probabilmente presto coinvolgerà anche personalità della Cina, soprattutto se implicate nella repressione di minoranze come gli Uiguri o dei movimenti democratici a Hong Kong. Mentre dall’Arabia Saudita, dal Myanmar e dalla Corea del Nord non ci sono state reazioni immediate alla presa di posizione di Londra, Mosca ha reagito subito esprimendo il suo «rammarico» per misure che colpiscono cittadini russi e facendo presagire una risposta.

Il caso di Sergej Magnitsky, ufficialmente morto per arresto cardiaco mentre era detenuto in condizioni disumane (descritte nel diario pubblicato postumo sulla Novaja Gazeta) che non consentono di escludere maltrattamenti e torture decisive per il decesso, rappresenta una spina nel fianco della credibilità internazionale di Vladimir Putin. Magnitsky aveva accusato di corruzione personalità molto vicine al presidente russo, di fatto coinvolgendolo; la sua morte in carcere fu quindi inevitabilmente collegata alle sue prese di posizione contro il regime. La stessa magistratura russa riconobbe che le condizioni di salute dell’imputato erano state sottovalutate; nonostante questa parziale ammissione, probabilmente per rispondere alle critiche della comunità internazionale, Sergej Magnitsky fu processato e condannato dopo la morte per frode fiscale, con prassi decisamente poco garantista. Nel 2012 il Congresso degli Stati Uniti, durante la presidenza Obama, aveva approvato il Magnitsky Act che autorizzava il governo a perseguire coloro che violavano i diritti umani con la privazione del visto d’ingresso e il sequestro dei beni. Riportare alla memoria collettiva questa pagina opaca della recente storia russa ha sicuramente irritato Vladimir Putin, reduce dalla discussa vittoria nel referendum costituzionale.

Immagine: Dominic Raab (9 gennaio 2018). Crediti: Ministry of Housing, Communities and Local Govt [Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0)], attraverso www.flickr.com

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