Contro i deboli in fuga dalla guerra, e chi intende tutelarli, si diffondono in Europa intransigenze accanite sui doveri e rabbiose reazioni ai diritti. Le pratiche tipiche nei confronti delle genti in fuga – il muro di respingimento e il campo di concentramento – godono di rinnovata legittimazione politica. Riemerge dunque, in generale, il tema delle frontiere ai confini. Di riflesso, l’integrazione sociale diventa meno importante dell’esclusione sociale in Europa e dall’Europa. È sicuramente indicativo dello stato della nostra cultura che questa condizione d’ostilità sia oggi al centro della condizione europea. Esso s’intreccia, naturalmente, con il problema più importante percepito a livello comune, il problema dei soldi: come accumularli, come contarli, come spenderli. È chiaro che la posizione che i governi detengono quali custodi degli interessi percepiti dalle varie porzioni della società europea impone ovvi ostacoli alle persone nel concepirsi come un insieme di agenti responsabili collettivamente per la costruzione di un interesse superiore e di un bene collettivo. Oggi, tuttavia, si parla senz’ambagi d’egoismo nazionale e attorno a questo principio una parte rilevante dell’Unione europea sembra condividere una prospettiva politica, forse la più potente al momento. È però la prospettiva contraddittoria di chi si trova unito e non lo vuole essere, o non lo vuole più. Se questa è una contraddizione essa non è più marginale: è al centro dell’Unione e ne investe pratiche e simboli d’unità.

I simboli sono sostanza essenziale alla vita politica. Proprio a Strasburgo, essa stessa capitale simbolica dell’Europa unita, si è svolto un atto diplomatico simbolico originale e controcorrente. È accaduto al Consiglio d’Europa, la prima e più inclusiva organizzazione paneuropea composta dai parlamentari di 47 Stati membri. Thorbjørn Jagland, Segretario Generale di notevole spessore politico, ne ha parlato senza indugi, scegliendo d’esaltare l’aspetto politico di una mostra su Sarajevo realizzata nel Palais de l’Europe dalla Repubblica di San Marino: “Per la prima volta nello spazio espositivo del Consiglio d’Europa uno Stato espone una mostra che parla di un altro Stato”, ha commentato. Egli ha scelto d’esaltare un aspetto saliente, onnipresente e connaturato alle relazioni internazionali: la questione del significato dell’esperienza comunicativa come tratto qualificante la condizione umana e il ruolo sostanziale che anche il simbolismo politico possiede in questa condizione.

Parlando di Sarajevo il piccolo Stato ha parlato dell’inconscio dell’Europa, quella città simbolo d’un travaglio comune racchiuso nelle parole dette nel 2011 dal Premier Letta: “L’Europa è morta a Sarajevo”. A Sarajevo morì l’Europa unita in apparenza ma divisa in sostanza, incapace di pensare un destino politico comune, legato, prima di tutto, alla protezione del diritto alla vita negato dalla guerra. Un’incapacità tuttora irrisolta che un gesto simbolico propone di ripensare partendo proprio da quell’inconscio europeo, ampiamente rimosso, facendo del gesto medesimo un simbolo d’empatia e prossimità. La forza di quel simbolo è nel valore dell’ospitalità, ribadito proprio quando la sua decadenza in Europa rischia d’essere premessa operativa a una crisi politica incipiente, forse ancor più grave di quella attuale. Così, il gesto simbolico d’ospitare l’altro nel proprio spazio è all’altezza d’una tradizione culturale europea del quale il piccolo Stato si conferma un elemento sostanziale di dialogo e raffronto sul problema dell’ordine politico internazionale. D’altronde non è certo sul piano della forza materiale che si svolge il confronto tra chi è piccolo e chi non lo è, bensì su quello immateriale. È lì che in Europa si costituisce, da secoli, una polarità ideale e, al tempo stesso, una concreta dicotomia che talvolta tende all’attrito nella dinamica della politica internazionale.

In questo caso, ospitando in sé l’immagine di un altro, il valore dell’ospitalità è reso un simbolo politico e istituzionale. Per questo la Repubblica che pone alle proprie origini politiche l’epopea di un rifugiato straniero in fuga dalle persecuzioni indica, a suo modo, un percorso. Mostra a chi non teme il rattrappirsi delle radici più fertili d’Europa, quelle dell’ospitalità e del mutuo sostegno, che altre radici, assai più profonde e salde, sono pronte a riemergere dal sottosuolo, nutrite di sangue e lacrime versate per secoli e secoli nell’Europa divisa. Sarajevo, come e più di altre città d’Europa, può essere oggi un monumento all’unione o alla divisione, alla pace o alla guerra, può appartenere a questo o a quell’universo simbolico. Sia come sia, il gesto di sceglierla come simbolo d’Europa richiama un’urgente domanda: la filosofia dell’Unione è oggi quella di una società divisa e ancor più pronta a dividersi? Se è così, per quanto tempo e in quale modo essa è in grado di reggere questo peso politico senza soccombere?

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