Durante la sessione di febbraio 2018 il Parlamento europeo, con un voto prevedibile ma non del tutto scontato, si è diviso sulla proposta di riformare l’attuale meccanismo di elezione dei deputati. Il testo, approvato dalla commissione Affari costituzionali dopo un lungo negoziato, nasceva dalla necessità di “ricollocare” i seggi che – forse – saranno liberati dal Regno Unito a partire dalla legislatura 2019-2024. Il punto focale della proposta consisteva nella creazione di un collegio elettorale europeo in cui eleggere 26 deputati da inserire in liste transnazionali ognuna rappresentativa di un partito politico continentale. Idealmente l’elettore si sarebbe trovato nella cabina due schede, una per votare la “quota nazionale” dei parlamentari lui spettanti, l’altra per la parte transnazionale. Inizialmente l’idea, per quanto azzardata, sembrava aver convinto buona parte dell’Europarlamento, con la “grande coalizione” Socialisti/Liberali/Popolari in prima linea (il testo portava la firma di una cristianodemocratica polacca e di un socialista portoghese), il supporto esterno dei Verdi e della parte italiana del gruppo di Farage e Grillo. Con l’avvicinarsi del voto in aula, però, l’accordo ha cominciato a scricchiolare.

Molti membri influenti del PPE, a partire da Elmar Brok (presidente dell’Unione federalista europea, non proprio un euroscettico), hanno espresso forti perplessità e, alla fine, la plenaria ha votato un testo molto meno ambizioso, che elimina tutti i riferimenti specifici alle liste transnazionali e si limita a elencare una serie di buoni propositi – come una maggiore armonizzazione delle leggi elettorali – gonfie di ottimismo della volontà ma poco incisive.

La scelta dei popolari (che, in realtà, era stata annunciata dalla relatrice in modo ufficioso già qualche mese fa) ha sollevato le reazioni indignate degli ambienti europeisti, ma, lasciando perdere per un attimo le questioni di tattica parlamentare, l’intera vicenda di questa riforma mancata permette alcune riflessioni sullo stato di salute del progetto europeo.

La più evidente è che, a quasi quarant’anni dalla prima elezione diretta del Parlamento europeo, l’Unione Europea non ha ancora risolto il problema della sua legittimità democratica. Nata come spazio di libera cooperazione commerciale tra Stati e trasformatasi in un’organizzazione internazionale che mischia elementi federali (la banca centrale, la Corte di giustizia, la moneta) ad altri intergovernativi (il Consiglio europeo), l’UE vive una contraddizione di fondo. Da un lato necessita di sempre maggiori poteri per gestire la multidimensionalità del XXI secolo, dall’altro non trova una formula per ancorare questi poteri a una forma di investitura popolare. Il risultato è un uroboro inestricabile, che passa dal micromanagement burocratico della pesca della vongola, alle grandi questioni geopolitiche.

Accanto alla questione democratica ne appare una meno evidente ma non meno importante: la convinzione delle élite europee (intendendo per élite non solo gli attuali governanti ma pure una folta schiera di accademici, intellettuali e politici) che tutto possa essere risolto passando per le riforme istituzionali o, per induzione, dando nuove competenze alla UE. Le banche sono in crisi? Centralizziamo la vigilanza a livello BCE. I fondi europei non vengono spesi a dovere? Introduciamo la condizionalità macroeconomica nella distribuzione. Alcuni settori industriali sono in difficoltà? Deleghiamo tutte le norme sugli aiuti di Stato alla Commissione europea.

Siamo, insomma, in quello che Lucio Caracciolo chiama “autismo europeista”, una strana ideologia postideologica, che confonde lo strumento (le istituzioni europee) con l’obiettivo (la concordia e lo sviluppo dei popoli).

In questo senso la vicenda delle liste transnazionali è emblematica: per risolvere un problema reale, ovvero la debolezza politica e mediatica del Parlamento europeo rispetto al Consiglio, si ricorre a uno strumento artificioso e poco trasparente. Nessuna federazione, nemmeno realtà solide come gli Stati Uniti d’America o la Svizzera, elegge i propri rappresentanti in circoscrizioni extrastatali (o extracantonali), figuriamoci con un collegio unico nazionale. Inoltre, pur senza perdersi nei tecnicismi elettorali, sarebbe interessante capire quale rappresentatività potrebbe avere un deputato di Amburgo per un elettore di Cerignola. Qui si potrebbe ribattere che, alle origini, anche l’Italia unita era un’entità “artificiale”, costruita da pochi rivoluzionari illuminati; qualsiasi nazione lo era in un passato più o meno recente.

Obiezione formalmente corretta ma che, confutata, svela l’ennesima debolezza del progetto europeo, ovvero la mancanza di un vero momento costituente. Gli Stati Uniti d’America nascono nelle acque del Potomac e fra le sterpaglie di Gettysburg, la nostra Costituzione sui monti e nelle prigionie della Resistenza. Non si tratta di ambire a momenti tragici o di avere il gusto per il dramma, ma l’Unione Europea ha sistematicamente fallito ogni appuntamento con la Storia: la vicenda greca ha tracciato un solco fra la Kerneuropa tedesca e il Mediterraneo, mentre la crisi dei migranti ha alzato (non solo metaforicamente) un muro tra Est e Ovest.

Insomma, più che vaticinare improbabili ircocervi istituzionali, sarebbe necessario riflettere su quale sia oggi l’orizzonte dell’Unione Europea, uscendo dal regno dei desiderata e facendo una riflessione non superficiale riguardo meriti e colpe della globalizzazione.

Hegel, che vedeva nell’Impero francese e in Napoleone “la Storia a cavallo”, identificando in Bonaparte lo Stato che prende su di sé il peso del mondo e lo conduce verso il futuro, oggi forse vedrebbe queste caratteristiche nella Cina o nell’India.

L’Unione Europea può e deve ancora essere un faro di civiltà, democrazia, rispetto e sicurezza ma per splendere deve ricordare l’insegnamento di Agostino, abbandonando le “cose dell’infanzia”, il federalismo integralista, e concentrandosi sugli strumenti dell’adulto, ovvero nuove forme di cooperazione rispettose della democrazia e delle sovranità.

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