Il rinnovato protagonismo del Cremlino su diversi scenari internazionali influisce, e in parte compromette, i rapporti di Mosca con l’Unione europea, con gli Stati Uniti e con l’Italia. Ne abbiamo parlato con lo storico ed editorialista del Corriere della Sera, nonché ex ambasciatore italiano a Mosca, Sergio Romano.

Le relazioni attuali dell’Unione europea con la Russia sono ancora segnate dalle sanzioni economiche introdotte a seguito della crisi ucraina del 2014. Sanzioni estese ora fino a fine 2017. Qual è il suo giudizio sull’utilizzo di queste misure? 
Personalmente sono convinto, e da parecchio tempo, che le sanzioni andrebbero tolte. In generale, le sanzioni sono una misura di cui occorrerebbe fare un uso limitato e prudente. Danneggiano la società civile più di quanto danneggino il governo a cui vengono applicate. Sono queste, del resto, le intenzioni di coloro che ne fanno uso: vengono adottate nella speranza che la società colpita dalle sanzioni si ribelli al proprio governo.

Stesso discorso varrebbe anche per la Repubblica Islamica dell’Iran…
Sì, anche in passato e in merito all’Iran pensavo che le sanzioni fossero un errore. Ora il problema è in parte risolto o in fase di risoluzione; è stato raggiunto un accordo, ma i risultati non si sono ancora manifestati. L’embargo prosegue, seppur alleggerito. Ci troviamo in una fase di transizione.

**I****n Medio Oriente, soprattutto in Siria, la Russia sta giocando una partita decisiva per conservare la sua influenza nella regione. A suo giudizio si può prefigurare una sorta di “**Pax russa”?
Le ragioni per cui la Russia è entrata in campo in Siria sono abbastanza chiare. Quando scoppiarono le prime rivolte arabe, alcuni governi occidentali si schierarono subito contro il governo di Bashar al Assad. Lo hanno fatto molto probabilmente nella convinzione che la fine del regime avrebbe comportato anche la fine della vecchia presenza “sovietica” nelle basi siriane. Non è difficile comprendere quindi perché la Russia sia intervenuta. Voleva difendere il suo alleato e soprattutto la sua tradizionale posizione nella regione. Oggi la sua strategia mi sembra tutto sommato abbastanza chiara. La Russia e il governo siriano potrebbero rinunciare ad una parte del territorio soltanto se il regime di Assad riuscisse a ristabilire la sua autorità nell’area che va da Damasco ad Aleppo. Questa è la ragione per cui Aleppo è al cuore del conflitto. Non si può dunque parlare ancora di una “Pax russa” in Medio Oriente perché gli obiettivi non sono stati ancora raggiunti. Credo che la Russia continuerà a perseguirli. Ma non si può combattere indefinitamente e Mosca potrebbe essere costretta a rivedere la propria politica.

Sul tema specifico del regime change, Cremlino e Casa Bianca hanno tradizionalmente posizioni divergenti.
Non bisogna dare per scontato che la politica estera degli Stati Uniti sia sempre lineare e coerente. Non sempre, nei Paesi mediorientali, la Casa Bianca ha cercato di cambiare regimi ed esportare democrazia. Durante la prima fase del conflitto in Afghanistan, nel 2001, la presidenza Bush non aveva obiettivi morali e cominciò a parlare di democrazia soltanto quando si vide costretta a restare e dovette giustificare il cambiamento della sua linea. Barack Obama ha detto di volersene andare dall’Iraq, ma non vi è riuscito e ha dovuto lasciarvi una parte del contingente. Le truppe rimaste non sono in Iraq per portarvi la democrazia. Sono rimaste perché i consiglieri del Pentagono lo hanno convinto che non si poteva rinunciare ad un territorio così strategico.

Matteo Renzi è uno dei premier europei più “aperturisti" nei confronti della Russia di Putin. Eppure un contingente di soldati italiani parteciperà alla missione Nato il Lettonia. Come si conciliano gli elementi di questa apparente ambiguità?
Il governo non è d’accordo con le sanzioni alla Russia, ma fa parte di un’alleanza e non può esimersi da impegni e obblighi che sono approvati da una larga maggioranza. L’Italia è stata costretta, per il medesimo ordine di ragioni, a intraprendere azioni che, oltretutto, la danneggiano economicamente. Quanto all’invio di militari italiani in Lettonia, sarà un’operazione simbolica, anche se  ciò che è simbolico, in politica estera, ha sempre una valenza politica.

Tra pochi giorni gli americani saranno chiamati al voto per scegliere il nuovo presidente. Della Clinton si dice sia più interventista mentre Donald Trump pare sostenere un certo isolazionismo. Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?
È certamente vero che Hillary Clinton è parsa più incline a impegnarsi nella politica internazionale. Ma è altrettanto vero che le dichiarazioni devono essere riviste alla luce della realtà. Quanto a Trump, potrei rispondere se fossi riuscito a farmi un’idea chiara del suo programma, che per ora mi sembra soprattutto  una collezione di slogan diretti a intercettare gli umori, spesso contraddittori, dell’opinione pubblica.

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