Il primo viaggio all’estero di Donald Trump da presidente degli Stati Uniti è terminato. Un test importante per il nuovo inquilino della Casa bianca, un’occasione per ridiscutere impegni e ridefinire alleanze, un momento di confronto sugli obiettivi ma anche di scontro sulle diverse posizioni, talvolta senza riuscire ad arrivare a una sintesi.

L’“appendice europea” del tour di Trump è stata ampiamente approfondita su questo magazine, dai trenta minuti di colloquio in Vaticano con Papa Francesco, al vertice NATO di Bruxelles, in cui il presidente ha richiamato i partner a fornire il loro giusto contributo economico  all’Alleanza, fino al summit dei leader del G7 a Taormina, nel quale sono riemerse ancora una volta tutte le difficoltà di una convergenza su temi cardine come il commercio, la gestione dei flussi migratori e il cambiamento climatico. Prima di arrivare nel Vecchio continente, però, il magnate newyorkese ha fatto tappa in Medio Oriente, diventando peraltro l’unico presidente nella storia degli Stati Uniti ad aver scelto la complicata regione come meta del suo primo viaggio internazionale.

È stata l’Arabia Saudita ad accogliere con tutti gli onori, lo scorso 20 maggio, l’inquilino della Casa bianca. E Trump ha subito mostrato di trovarsi a proprio agio nel lusso dei palazzi di Riyad, riavvicinando Washington alla rigida monarchia sunnita e ricalibrando le scelte di politica estera del suo predecessore Barack Obama. Sul tavolo c’era, innanzitutto, un accordo sulla vendita di armi al ritrovato alleato mediorientale, del valore di 110 miliardi di dollari, da inserire nel più ampio quadro di un’intesa decennale da 350 miliardi: e di questo, Trump non ha potuto che rallegrarsi tornando a rivolgere la sua attenzione all’interno dei confini americani e alle promesse della campagna elettorale, rimarcando come le firme apposte a Riyad garantiranno investimenti negli Stati Uniti e la creazione di posti di lavoro.

Sul piano propriamente internazionale, Trump è poi intervenuto davanti ai rappresentanti di oltre cinquanta Paesi arabi e a maggioranza musulmana in un summit arabo-islamico-americano. Il presidente ha dapprima rammentato le discussioni già avviate con molti degli interlocutori presenti sul rafforzamento delle partnership esistenti e sulla creazione di nuove alleanze, al fine di rafforzare la sicurezza e la stabilità nella regione mediorientale. Di fatto, un riferimento a quell’idea di una “NATO araba” a guida saudita che ha già fatto capolino e che si ricollega al concetto espresso immediatamente prima di una «coalizione di nazioni il cui obiettivo sia quello di cancellare l’estremismo».

Alla minaccia terroristica, il presidente statunitense ha dedicato una parte importante del suo discorso, sottolineando come la vittoria sul terrorismo sia da considerarsi un comune obiettivo, condiviso dalle nazioni musulmane che a causa della violenza del fenomeno hanno finora pagato il prezzo più caro in termini di vite umane. Nelle parole di Trump, la battaglia non può configurarsi come uno scontro di fedi o confessioni religiose, né tanto meno come uno scontro di civiltà, ma è semplicemente la battaglia del bene contro il male, è la contrapposizione tra la barbarie di chi distrugge la vita e le persone di ogni religione che aspirano a difenderla. Quella del presidente è dunque una mano tesa verso l’islam, ma anche la chiamata all’assunzione di un impegno in prima linea contro il terrorismo, perché l’America è pronta a dare una mano, ma le nazioni del Medio Oriente non possono pensare che sarà Washington a «distruggere il nemico per loro».

Dopo questa presa di posizione, elogiata da un repubblicano storico come Newt Gingrich secondo cui mai un presidente aveva così esplicitamente conferito la principale responsabilità della lotta al terrorismo ai Paesi della regione, Trump ha poi osservato che i terroristi potranno essere sconfitti solo se saranno tagliati i loro canali di finanziamento, eliminate le loro basi territoriali e sconfitta la loro ideologia. Qui il presidente ha menzionato esplicitamente l’Iran, principale responsabile – secondo l’inquilino della Casa bianca – dell’instabilità regionale e reo – dall’Iraq, al Libano, allo Yemen – di armare, addestrare e finanziare milizie, gruppi terroristici e forze estremiste.

Rispetto a Obama, che perseguendo la strada diplomatica dell’accordo con l’Iran sul nucleare aveva raffreddato notevolmente i rapporti con le monarchie sunnite del Golfo, la cesura non potrebbe essere più netta. Come però ha osservato Fareed Zakaria in una sua analisi per il Washington Post, la ricostruzione trumpiana lascia a desiderare: certo, osserva il commentatore, l’Iran non è una forza stabilizzatrice del Medio Oriente e sostiene attori politici discutibili, ma il collegamento con Teheran del terrorismo di matrice jihadista appare chiaramente inaccurato, essendo questo spesso alimentato da gruppi come il sedicente Stato islamico o al-Qaida che sono legati al jihadismo sunnita. Da questo punto di vista dunque – rileva Zakaria – le parole di Trump potevano essere rivolte a Riyad più che a Teheran.

La posizione anti-iraniana non è certamente risultata sgradita a Israele, dove il presidente si è peraltro recato direttamente dall’Arabia Saudita senza alcuno scalo, a segnare quasi fisicamente l’esistenza di quella che lo stesso Trump ha definito una «causa comune» tra Tel Aviv e i vicini arabi, ossia il contrasto della minaccia rappresentata da Teheran.

Ovviamente, incontrando sia Netanyahu che Abu Mazin, il presidente non poteva non affrontare il tema del processo di pace israelo-palestinese, ma ancora una volta non è apparso chiaro quale possa essere il percorso da seguire per raggiungere l’obiettivo.

Ora, Trump è di nuovo negli Stati Uniti, dove ad attenderlo c’è il caldo dossier dei rapporti con la Russia. La parentesi europea del primo viaggio presidenziale all’estero non sembra aver soddisfatto gli interlocutori del Vecchio continente, tanto che secondo la cancelliera tedesca Angela Merkel non sarebbe più possibile fidarsi degli USA. Trump segue la strada di quello che, al momento, ritiene sia innanzitutto l’interesse statunitense. In Medio Oriente, nessun interesse a impartire lezioni di diritti e democrazia alle monarchie sunnite, ma partnership per obiettivi condivisi. E delle sue posizioni a Riyad saranno sicuramente soddisfatti.