Dal 18 luglio non sarà più in vigore in Turchia lo stato di emergenza, istituito nel 2016, pochi giorni dopo il fallito golpe del 15 luglio. Lo ha annunciato İbrahim Kalın, portavoce del presidente Recep Tayyip Erdoğan, al termine del primo consiglio dei ministri del nuovo governo. La notizia, peraltro ampiamente prevista, segue però di pochi giorni un’ondata di licenziamenti di dipendenti pubblici accusati di rappresentare “una minaccia per lo Stato” e ulteriori provvedimenti che limitano la libertà di associazione e di stampa; sono state proibite dodici associazioni, chiusi tre giornali, fra cui il filocurdo Özgürlükçü Demokrasi, e un canale televisivo.

I licenziamenti hanno colpito 18.632 impiegati statali, tra cui 8.998 agenti di polizia, 3.077 soldati dell’esercito, 1.949 membri dell’Aeronautica, 1.126 della Marina, 1.052 dipendenti civili del ministero della Giustizia, 649 della gendarmeria, 192 effettivi della guardia costiera, 199 accademici. Ancora una volta anche le università sono state coinvolte da provvedimenti che allontano dall’insegnamento docenti considerati sospetti di eversione. Durante lo stato di emergenza hanno perso il lavoro più di 160.000 le persone, in quanto ritenute complici di Fethullah Gülen, l’imam considerato da Erdoğan la mente del fallito golpe di due anni fa. Più di 150.000 sono state arrestate e circa 55.000 si trovano attualmente in carcere.

Dopo il giuramento in Parlamento del 9 luglio, Erdoğan è il primo presidente turco con poteri esecutivi, sulla base della riforma costituzionale convalidata dal referendum del 16 aprile 2017: presiederà il governo senza bisogno di un voto di fiducia e nominerà ministri, funzionari statali e giudici costituzionali e potrà emanare decreti esecutivi. Senza particolari sorprese il nuovo governo, che si compone di 16 ministri: alla Difesa è stato nominato il capo dello stato maggiore, il generale Hulusi Akar, e al ministero del Tesoro e delle Finanze il genero del presidente, Berat Albayrak. Confermati invece alla Giustizia, agli Interni e agli Esteri i ministri del precedente governo, rispettivamente Abdülhamit Gül, Süleyman Soylu e Mevlüt Çavuşoğlu.

Si inaugura così una nuova stagione all’insegna del presidenzialismo che vedrà, come sottolineano molti osservatori, un uomo solo al comando. Non senza contraddizioni però; alla cerimonia di insediamento, ad esempio, non erano presenti né rappresentanti delle istituzioni europee, né dei singoli Paesi dell’Unione Europea, con l’unica eccezione del premier ungherese Viktor Orbán e del bulgaro Rumen Radev, accomunati dall’interesse del contenimento dei flussi migratori. La partecipazione dell’ex premier italiano Silvio Berlusconi e dell’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder va riferita a rapporti personali e a legami storici; erano fortemente rappresentate tutte le realtà turcofone dell’area, in una sorta di diplomazia neo-ottomana, distante dall’Europa e dall’Occidente. Inoltre, le vittorie di Erdoğan, al referendum, alle presidenziali, alle elezioni parlamentari sono tutte significative, ma sono state ottenute con margini minimi. Soprattutto, nel Parlamento saranno ben rappresentate le opposizioni, tra le cui fila ci saranno anche 67 deputati curdi. Anche se Muharren İnce e il Partito popolare repubblicano (CHP, Cumhuriyet Halk Partisi) escono sconfitti dalla tornata elettorale del 24 giugno, riportano però un risultato importante. Erdoğan ha vinto, ma le opposizioni sono considerate da molti osservatori in grado di ostacolarne il cammino e limitarne il potere.

Crediti immagine: da mwanasimba from La Réunion (Downtown Istanbul) [CC BY-SA 2.0  (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0)], attraverso Wikimedia Commons

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