Nei giorni in cui Emmanuel Macron negoziava col movimento dei gilet jaunes per salvare la sua presidenza (e forse pure una certa idea di Francia), a Bruxelles i ministri delle Finanze dei ventisette erano impegnati nel nuovo capitolo di una polemica quasi decennale: la riforma per il potenziale completamento dell’eurozona. Qualche settimana fa il governo francese e quello tedesco hanno presentato una proposta abbastanza dettagliata che, per amor di sintesi, riprende buona parte del rapporto dei cinque presidenti (Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa), un documento datato 2015 che Jean-Claude Juncker, Donald Tusk, Mario Draghi, Martin Schulz e Jeroen Dijsselbloem presentarono come “contributo al dibattito” in corso dopo la “conclusione” della crisi dei debiti sovrani.

Il cuore della proposta franco/tedesca è l’ormai mitologico bilancio comune dell’eurozona, una creatura esotica più simile a certi animali descritti nei bestiari medievali che a un vero strumento di politica fiscale coordinato. A causa del continuo braccio di ferro tra falchi rigoristi (rappresentati a Berlino dall’ex ministro delle Finanze ora presidente del Bundestag Wolfgang Schaeuble) e Paesi ad alto debito, il bilancio dovrebbe quantificarsi, per usare le parole di Angela Merkel, in «una cifra bassa, in miliardi, al massimo a due cifre». Per calcolare l’ordine di grandezza basta pensare che il bilancio europeo attuale è di circa 100 miliardi di euro (lo 0,9% del PIL europeo), mentre il budget federale americano si aggira attorno ai 4 trilioni di dollari (il 20% del PIL USA). Rispetto a una federazione più compiuta, insomma, stiamo parlando di cifre che sfiorano il ridicolo e che tutti gli accademici hanno bollato come assolutamente insufficienti per far fronte a qualsiasi nuova crisi, figuriamoci per diventare un volano di investimenti pubblici e privati.

Il compromesso raggiunto dall’Eliseo e dalla cancelleria federale tedesca, in realtà, nasconde un conflitto molto più antico e si piega alla stessa logica che ha visto il prevalere dell’impostazione ordoliberista nella gestione della vicenda greca: un gruppo, molto numeroso, di Stati nordici e dell’Est sono totalmente indisponibili anche solo ad accettare la possibilità di condividere il loro rischio sovrano con quello di Paesi percepiti come “inaffidabili” o poco rigorosi. Se le evidenti ritrosie del Gruppo di Visegrád si possono superare lavorando solo sui membri dell’eurozona, è interessante notare come – in parallelo alla definizione della proposta di Merkel e Macron – si stia formando una nuova “corrente” interna al Consiglio europeo. Soprannominato dai giornali la Nuova Lega Anseatica, il gruppo è guidato da Olanda e Irlanda, con la partecipazione dei tre Paesi baltici, della Finlandia e di Svezia e Danimarca (che non hanno adottato l’euro ma, almeno in teoria, sono destinate a farlo, non avendo un opt-out definito). Gli anseatici del XXI secolo contestano le fondamenta stesse del progetto nella sua variante macroniana, ovvero la possibilità, in un futuro abbastanza distante, di arrivare a dei veri trasferimenti intrastatali per equilibrare le differenze macroeconomiche (detta sinteticamente, per abbassare lo spread) e, nel caso, addirittura puntellare le finanze pubbliche più in crisi.

Così, mentre la Germania impone caveat, vincoli e – ovviamente – un controllo ancora più stringente sui bilanci pubblici, gli anseatici e i Visegrád fanno opposizione “dura e pura” da fuori, cercando di bloccare ogni iniziativa.

Così, nascosta tra i mille rivoli in cui pare essersi diviso il Consiglio europeo, riemerge – ancora – quella vecchia idea teorizzata da Wolfgang Schaeuble negli anni Novanta: la costruzione di una Kerneuropa tedesca, solida, con bilanci in ordine, legata da comuni identità statuali e, magari, con una sua moneta forte, non più condivisa col Mediterraneo. In questo schema la Francia sarebbe un partner scomodo ma sopportabile se, in cambio, accettasse l’alleggerimento dei legami con i cugini italiani e spagnoli. Macron, come i suoi predecessori, ha però già fatto capire di non essere disponibile ad alcuna opzione che comporti lo spacchettamento dell’eurozona temendo, a ragione, di passare da alleato strategico di Berlino a partner di secondo piano di una nuova intesa europea ordoliberista.

Le elezioni europee di maggio, insieme alla conclusione dell’ordalia britannica ci offriranno un quadro più chiaro della situazione e, soprattutto, più contezza delle forze in campo. In ogni caso, almeno per il momento, la riforma dell’eurozona appare come l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.

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