La dialettica fra governo italiano e Commissione europea non pare trovare pace. Dopo l’attesa lettera firmata da Dombrovskis e Moscovici, via XX Settembre ha risposto con una missiva piuttosto dettagliata che, tuttavia, non rivela alcuna volontà correttiva della manovra. Il Berlaymont solleva due obiezioni specifiche che riguardano il saldo strutturale e le spese per interventi considerati di contingenza, come il piano per la sicurezza nelle scuole.

In particolare è sul primo punto che Bruxelles ha le maggiori difficoltà: con la legge di bilancio attuale l’Italia prevede un peggioramento dello 0,4% quando i tecnici del MEF e della DG Ecfin avevano concordato un rientro dello 0,6%.
Il ministro Padoan nel tracciare la sua difesa della legge di bilancio ricorda alla Commissione l’annosa vicenda dell’output gap, ovvero la differenza fra prodotto interno lordo effettivo e potenziale. Il dato viene calcolato dall’esecutivo europeo con una metodologia piuttosto complessa che, secondo gli economisti del MEF, sovrastima il tasso di disoccupazione che non provoca un aumento dell’inflazione (Non-accelerating wage rate of unemployment). Senza scendere troppo nei dettagli tecnici, il ministero dell’Economia sostiene che ormai la relazione che lega salari e inflazione non sarebbe più diretta a causa della tendenza, invertita solo da un paio di anni, delle banche centrali a tenere sotto controllo le aspettative di medio termine.

Inoltre l’Italia mette sul piatto le misure straordinarie per il terremoto e l’emergenza migranti ricordando come il nostro Paese, al contrario di alcuni partner europei, si stia facendo carico di un impegno umanitario con pochi precedenti nella storia dell’Europa unita. La Commissione rifiuta in parte questa lettura ritenendo alcune di queste spese legate a fenomeni congiunturali e, dunque, prive dei requisiti per entrare nell’applicazione delle clausole di flessibilità.

Al netto degli esoterismi tecnici, però, il duello inscenato da Roma e Bruxelles cela una dinamica politica più ampia che va a inserirsi in una generale variazione degli equilibri di potere europei. La Commissione si è sempre retta su due pilastri, il buon funzionamento del “motore franco/tedesco” e la spinta pro mercato liberalizzatrice imposta dal Regno Unito. Oggi, con Francia e Germania ormai prossime a elezioni dai contorni quantomeno opachi e la Gran Bretagna impegnata con la Brexit, la struttura europea oscilla pericolosamente.

L’Italia, mostrando in maniera plastica i bizantinismi delle norme europee, spera di costruire una rete di alleanze che da Roma si estenda fino a Madrid, Atene, La Valletta e, in parte, pure a Bruxelles grazie al lavoro sottotraccia del Commissario socialista Pierre Moscovici. Addirittura Jean-Claude Juncker, il cui mandato - va ricordato - si regge su una flebile alleanza in seno al Parlamento europeo fra Socialisti e Popolari, non può prescindere dal sostegno italiano: messo alle strette dalla destra del PPE per le sue politiche ritenute troppo accondiscendenti verso la sinistra, il presidente della Commissione sa di avere nel governo italiano lo sparring partner ideale.

In una sorta di gioco della parti continentale, Juncker e Dombrovskis possono coprirsi a destra recitando il ruolo dei ruvidi custodi della disciplina di bilancio mentre Renzi e Padoan conquistano una preminenza all’interno dei progressisti europei capace di mettere ai margini leadership indebolite come quella di Francois Hollande o troppo caotiche come ha dimostrato di essere SYRIZA. In questo senso l’obiettivo di lungo termine italiano appare piuttosto chiaro, proporsi come guida di un processo rifondativo dell’Unione Europea che passi per un superamento dell’austerità di bilancio e approdi a una generale revisione del Fiscal Compact o - che sarebbe poi la stessa cosa - nell’istituzione di strumenti finanziari comuni con la stessa capacità espansiva dei bilanci propri dei grandi stati federali.

Insomma, il negoziato sulla legge di bilancio non va letto come drammatico redde rationem tra Italia e Unione Europea, ma rappresenta piuttosto l’ennesima tappa di un lungo cammino iniziato con la crisi greca ovvero la difficile, difficilissima, costruzione di una vera governance economica europea.
L’Italia sembra decisa a proporre un approccio condiviso che superi il ruolo tecnocratico della Commissione mentre altri paesi, Germania in testa, appaiono convinti della necessità di una politica normativa, con chiari meccanismi punitivi nei confronti di chi non rispetta alla lettera i regolamenti di finanza pubblica. Se la legge di bilancio non sarà cambiata il governo italiano potrà dire di aver messo a segno un punto importante spendibile nel futuro negoziato per la revisione dei Trattati ma, al tempo stesso, dovrà dimostrarsi in grado di portare a termine il piano di riforme descritto nella lettera del MEF.