Un doppio livello di lettura deve necessariamente accompagnare ogni Rapporto che le associazioni che si battono per la tutela dei diritti umani periodicamente pubblicano. Il primo livello riguarda lo sconcerto per l’arretratezza e spesso la crudeltà delle relazioni che uomini e donne, individualmente e nelle loro organizzazioni sociali, sono in grado di costruire gli uni con gli altri. Il rapporto di potere, l’assenza di una “pietas” declinata non in termini di irrealistica bontà bensì in quelli di comprensione, sono infatti gli elementi che caratterizzano non solo le politiche tra stati ma anche molta parte delle relazioni tra individui. Il secondo livello riguarda invece la positività che un Rapporto esprime nel suo essere uno sguardo aperto su un mondo che si vorrebbe invisibile e non visto: un richiamo all’essenza del nostro vivere comune e al valore positivo che in questa direzione le organizzazioni umanitarie rappresentano.
Si ha così la doppia sensazione, del positivo ruolo che Amnesty International – e altre analoghe associazioni non governative – rappresenta ed esercita, con le sue campagne e i suoi Rapporti, nel richiamare allo sguardo di tutti noi problemi tuttora vivi, gravi e spesso oscurati e, al contempo, dell’arretratezza culturale e civile che quanto documentato manifesta e rende visibile.
L’esercizio legale della forza da parte di uno stato è argomento centrale nel capirne la qualità democratica. Quando, come e perché punire sono domande che hanno avuto e tuttora hanno risposte diverse a livello geografico e nelle diverse contingenze storiche. Così tradizionalmente in Europa si è andata affermando sempre più un’idea della funzione penale tendente a rendere la pena “utile” anche nel suo essere afflittiva, volta al recupero di un valore positivo che nei sistemi detentivi attuali è identificato – almeno sul piano teorico – nella rieducazione sociale, fondata sulla consapevolezza di quanto commesso e sulla possibilità di riannodare quel legame con la comunità esterna che il reato ha reciso. Al contrario, in altri paesi di diversa tradizione culturale e con una diversa storia alle spalle, la pena ha un valore meramente retributivo perché tende a ristabilire con una sofferenza inflitta al reo quell’ordine e quel patto che egli ha violato con la commissione del reato. La si maschera spesso con la pretesa di essere un efficace deterrente, ma la pena retributiva resta invece soltanto un residuo di una funzione penale vista in continuità e non in radicale rottura con la pratica della vendetta, a cui il diritto penale, così come concepito nell’era della modernità, ha inteso contrapporsi.
Così la pena di morte è ancora proposta – a volte spettacolarizzata, altre volte con aggiunta di elementi punitivi anche verso i parenti del reo – in vari continenti, alla ricerca di un consenso cruento che proietti l’immagine di uno stato forte e in quanto tale in grado di proteggere: è proposta per tenere protetti i simboli del potere dalla carenza di riconoscimento, piuttosto che una comunità dalla possibile commissione di reati gravi, essendo le statistiche a negare tale funzione. Procede in parallelo con la pratica della tortura, pronta a ripresentarsi nelle situazioni di conflitto, giustificata in nome della tutela della collettività e invece sostanzialmente riaffermativa di esercizio di potere assoluto di alcuni su altri, dell’uomo sull’altro uomo. Entrambe indicano l’assenza di quel limite a cui invece i Rapporti delle organizzazioni non governative continuano a richiamarci.
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