Le tornate negoziali europee, ormai, sono piene di piccoli aneddoti. Dalla mitica borsa in coccodrillo che la signora Thatcher sbatté sul tavolo di Fontainebleau ‒ davanti a un inorridito Mitterrand ‒ per chiedere «i suoi soldi indietro», alle scappatelle di Angela Merkel per gustarsi le ottime patatine fritte di Place Jourdan, fino ‒ l’altro giorno ‒ al presidente del Consiglio Giuseppe Conte che, stando alle ricostruzioni, avrebbe ricordato a Mark Rutte il cucchiaio di Francesco Totti agli Europei del 2000.

Anche al netto di queste amenità, però, il Consiglio europeo di luglio 2020 rimarrà comunque tra i più significativi della storia recente. Dopo cinque giorni di maratona negoziale, i capi di Stato e di governo hanno trovato un accordo quadro ‒ che dovrà però passare anche dal Parlamento europeo ‒ sui due pilastri che, stando agli obiettivi di Ursula von der Leyen, dovrebbero sostenere la ripresa economica dopo la pandemia: il Quadro finanziario pluriennale 2021-2027 e il programma Next Generation EU.

Quest’ultimo, in particolare, ha segnato l’intera trattativa aprendo ‒ per la prima volta da almeno un decennio ‒ a profondi rimescolamenti nella particolarissima geografia del potere interno al Consiglio europeo. Tanto vale dirlo subito, l’accordo di qualche giorno fa è molto diverso sia dalla proposta franco-tedesca di maggio sia dal paper presentato dalla Commissione. Rimane la cifra complessiva (750 miliardi), ma le proporzioni tra stanziamenti a fondo perduto e prestiti cambiano, diventando 390 e 360 miliardi rispettivamente. Sia Berlino e Parigi che il Berlaymont, invece, ambivano a una proporzione molto diversa, con una prevalenza sostanziale delle sovvenzioni a fondo perduto.

Rimane, in ogni caso, il punto politico di fondo, su cui per almeno tre decenni due generazioni di classi dirigenti europee si sono scornate, la possibilità per la Commissione, e dunque per l’Unione Europea (UE), di fare debito. Pubblico. Questo principio è rimasto e, nonostante la promessa che Next Generation EU sarà uno strumento “eccezionale e temporaneo”, la breccia ormai si è aperta e, in futuro, potrà solo allargarsi.

Questa decisione, per molti versi storica, potrebbe essere considerata come una vittoria dell’europeismo classico (quello germogliato dal pensiero spinelliano, per intenderci), ma sarebbe una lettura molto superficiale: la Commissione potrà indebitarsi quasi come un vero governo ma non avrà, comunque, una capacità di spesa paragonabile a quella di Washington o Pechino: i progetti d’investimento saranno sempre presentati dalle capitali e a Bruxelles spetterà una funzione di controllo valutando in sostanza quando i piani sono congruenti con gli obiettivi di policy collettivi. Il tutto sempre supervisionato dal Consiglio europeo che, su richiesta di uno Stato, potrà richiedere verifiche ulteriori, rischiando di bloccare gli stanziamenti. Si tratta di una ipotesi estrema (nonché di utilizzo quanto mai improbabile) ma, a quanto pare, necessaria per convincere i sempre più riottosi europei del Nord a digerire l’intero accordo.

Sul fronte del nuovo bilancio pluriennale, allo stesso modo, assistiamo a un sostanziale ritorno delle prerogative nazionali: i programmi a gestione diretta europea (Horizon per la ricerca, in particolare, ma pure un nuovo programma per la ricerca medica, prima annunciato poi sparito da ogni documento) calano, mentre vengono tutelati i Fondi di coesione e la Politica agricola, due strumenti classici che hanno mostrato grande efficienza anche nei mesi più bui della crisi.

Nel complesso, dunque, l’Unione dopo cinque giorni di conclave emerge molto diversa e molto più centrata sulle necessità nazionali di prima. Sembra un paradosso ma non lo è: la battaglia giocata da Francia, Italia, Spagna e Germania contro i cosiddetti “frugali” non è stato un derby tra europeismo e sovranismo ma un vero e proprio scontro geopolitico basato su due idee di sviluppo profondamente diverse, che affondano le loro radici nella storia dei vari Paesi.

Olanda, Svezia, Danimarca e gli altri Paesi “anseatici”, proprio come ai tempi della Lega originale, basano il loro modello di sviluppo su una visione della società profondamente mercatista che vede nel commercio e nell’attrazione di investimenti (finanziari, soprattutto) i veri volani della crescita. I grandi Paesi mediterranei, al contrario, hanno una antica tradizione manifatturiera e un gigantesco patrimonio culturale capace di mantenere vivace una industria turistica impensabile sulle sponde del Mare del Nord. La Germania, in questa partita ideale prima ancora che economica o politica, si pone come la via di mezzo e, infatti, si trova nella posizione privilegiata di poter parlare con entrambe le “fazioni” con la stessa credibilità. In questa partita specifica la signora Merkel ha ritenuto che l’interesse nazionale tedesco si coniugasse più con quello di Francia e Italia, ben consapevole che nemmeno la possente industria renana può sopravvivere senza i suoi principali mercati di sbocco. In questo scenario il primo ministro olandese Mark Rutte ha visto uno spazio politico inatteso, la possibilità di assumere la leadership dei Paesi orfani della cancelliera, mostrandosi come novello campione delle priorità nordiche. L’operazione è riuscita, anche mediaticamente, ma non ha saputo imporsi nel più vasto tavolo negoziale. Le priorità dei frugali quasi non sono entrate nelle conclusioni del Consiglio europeo e, almeno finché Angela Merkel sarà al governo, Rutte e soci sono destinati a una battaglia forse rumorosa ma di mera testimonianza, Gramsci avrebbe detto senza egemonia.

Un discorso a parte, infine, lo meritano i Paesi di Visegrád che, ai margini della trattativa, si sono concentrati in particolare sulle odiate (da loro) condizionalità legate al rispetto dello Stato di diritto. Con un certo cinismo, e un approccio abbastanza spericolato, Orbán e gli altri non hanno esitato a schierarsi con Germania, Francia e Italia (il leader ungherese ha addirittura paragonato Rutte ai “comunisti”) pur di ottenere qualche concessione su questo fronte.

Nel complesso il Consiglio europeo appena concluso segna un deciso cambio di passo, nei prossimi mesi vedremo quanto questa neonata alleanza tra grandi Paesi fondatori (più la Spagna) saprà reggere i destini del continente e, al tempo stesso, capiremo se Mark Rutte e l’Olanda sono destinati a ripercorrere i passi del Regno Unito o se riusciranno a declinare meglio la loro “diversità” rispetto al mainstream bruxellese. Il quadro, tuttavia, rimane molto chiaro, in Europa le uniche linee di faglia che contano sono quelle nazionali, con buona pace delle presunte famiglie politiche o dei tentativi ‒ pure generosi ‒ del Parlamento europeo di cambiare l’asse del dibattito. Finita l’era del centralismo tedesco, inizia una nuova fase governata da Berlino, Parigi, Roma e Madrid, quanto durerà e per cosa sarà ricordata lo scopriremo nei prossimi mesi. Immagine 0

Immagine di copertina: Sala della plenaria del Consiglio europeo, Bruxelles, Belgio (10 dicembre 2016). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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