Una settimana dopo l’inizio delle operazioni, il bilancio dell’iniziativa turca Fonte di pace nella Siria nord-orientale è di circa 300.000 sfollati, 71 vittime civili e 358 militari uccisi complessivamente fra tutte le forze in campo. Le perdite tra le Forze democratiche siriane (SDF, Syrian Democratic Forces) e i loro alleati sono 185; le forze regolari turche hanno avuto 9 morti, mentre 164 sono quelli tra le milizie che li sostengono. Sono i dati divulgati dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, che avverte che si tratta di un bilancio provvisorio, destinato a incrementarsi nei prossimi giorni, anche per il precipitare della situazione di molti feriti gravi. Il barbaro omicidio di cui �� stata vittima l’attivista curda Hevrin Khalaf ad opera di milizie arabe filoturche dimostra inoltre che un’escalation di orrori e violenze si è già innescata sull’onda dell’avanzata turca in territorio siriano; i diritti delle donne e delle minoranze religiose rischiano di essere ulteriormente compressi. Mentre i civili fuggono dalle aree coinvolte e le vittime complessive continuano ad aumentare, sul suolo siriano si gioca però una complessa partita geopolitica. Il progressivo disimpegno degli Stati Uniti sta favorendo il regime di Assad e l’influenza della Russia sulla Siria e su tutta la regione. In conseguenza dell’intesa con i Curdi e le SDF, mediata da Mosca, le forze governative si stanno posizionandosi nel Kurdistan siriano (Rojava); dopo essere entrato a Raqqa, l’esercito siriano ha raggiunto Kobane mercoledì 16 ottobre. La presenza russa assume anche il significato di una possibile barriera alla ricostituzione dello Stato islamico, che potrebbe approfittare della situazione per rilanciare la sua presenza; il comandante delle SDF Mazloum Kobani ha annunciato il congelamento delle operazioni di contrasto allo Stato islamico a causa dell’emergenza rappresentata dall’avanzata turca, suscitando preoccupazione in Europa e a Mosca. L’alleanza suggerita dalle circostanze tra i Curdi e Assad, esalta quindi il ruolo di mediazione della Russia che sembra in grado di mantenere relazioni costruttive con tutte le forze in campo e con tutte le potenze regionali, siriani, iraniani, sauditi, turchi; Erdoğan andrà a Mosca martedì 22 ottobre in un incontro che potrebbe essere decisivo, nonostante le affermazioni perentorie di non voler arrivare a un cessate il fuoco. Trump cerca di condizionare la situazione senza un coinvolgimento militare, con la minaccia di sanzioni economiche e la diplomazia; Vladimir Putin è invece operativo sul terreno con i suoi consiglieri militari (che ad esempio sono stati gli unici ad entrare a Manbij, cittadina nel Nord del Paese a ovest dell’Eufrate), ma non è detto che riesca a trovare l’equilibrio veramente difficile tra le istanze curde e l’ostilità di Erdoğan verso quelle milizie che continua a definire terroriste. I prossimi giorni saranno decisivi per capire se una soluzione politica è possibile e per scongiurare nuovi massacri e nuovi esodi in massa di profughi. Questa mutevole situazione, è stata rappresentata da alcuni osservatori anche come il tramonto della NATO; Europa occidentale, Turchia e Stati Uniti sembrano giocare ognuno una sua partita indipendente, senza che si veda una traccia importante di quella alleanza che ha occupato un ruolo fondamentale negli ultimi settanta anni.

Immagine: Combattenti curde dell’YPJ, le Unità di protezione delle donne (4 aprile 2016). Crediti: Kurdishstruggle [Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)], attraverso www.flickr.com