È iniziato martedì 12 febbraio a Madrid, presso il Tribunale supremo, il processo contro dodici esponenti dell’indipendentismo catalano, accusati di aver organizzato, il 1° ottobre 2017, il referendum sull’autodeterminazione della Catalogna, di aver attentato all’unità del Paese, di aver utilizzato impropriamente fondi pubblici e di aver provocato atti violenti di rivolta. Gli imputati, fra cui ci sono l’ex vicepresidente catalano Oriol Junqueras, ex ministri della Generalitat catalana e leader della società civile, rischiano pene gravissime; nove di loro sono in carcere. Tra gli imputati non figura invece Carles Puigdemont, all’epoca dei fatti presidente della Catalogna, rifugiatosi in Belgio.

Il 1° ottobre 2017 il governo regionale catalano, organizzò un referendum sull’indipendenza, nonostante il divieto del Tribunale costituzionale spagnolo e del Tribunale superiore di giustizia. La polizia cercò di impedire il voto incontrando una forte resistenza ma per evitare il degenerare della situazione si ritirò poi nelle caserme. Il voto, a cui partecipò circa la metà della popolazione, fu un plebiscito a favore dell’indipendenza. Su questa base, il 27 ottobre la Generalitat approvò la Dichiarazione unilaterale di indipendenza. Il governo spagnolo commissariò la Generalitat; i leader indipendentisti furono quindi arrestati o fuggirono all’estero.

Il processo riapre una ferita ancora calda e scuote i difficili equilibri spagnoli. Il governo minoritario del socialista Sánchez, privo dell’appoggio proprio degli indipendentisti catalani, ha visto la legge di bilancio del governo bocciata dal Parlamento spagnolo, aprendo di fatto una crisi. Secondo i sondaggi, la grande maggioranza degli spagnoli è contraria al separatismo catalano; è difficile però che il carattere politico del processo non abbia ripercussioni sulle vicende nazionali.

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