Sono una psicoanalista. Il mio mestiere consiste nell’ascoltare i pazienti, e restare loro vicino nei momenti di maggiore difficoltà e sofferenza della loro vita. Cerco di aiutarli a risolvere i conflitti e le pulsioni che si agitano nel loro mondo interno. Stiamo vicini in questo percorso, per molto tempo. La distanza che normalmente esiste tra gli individui si modifica fino ad annullarsi in analisi, pur restando, paziente e analista, vicini e lontani al tempo stesso. L’ascolto partecipe, ma discreto dell’analista mette in contatto intimità non altrimenti concepibili, e contemporaneamente protegge dall’intrusione della presenza di un altro. La presenza fisica di questo incontro, dello scambio di sguardi, dell’ascolto dell’intonazione della voce, dell’osservazione dei piccoli movimenti del corpo, pur essendo entrambi, paziente e analista, in posizione di neutralità, richiama il rapporto precocissimo tra madre e bambino, quando la madre accoglie e interpreta un essere che non è esistito fino a poche ore prima, e si familiarizza con lui, permettendo contemporaneamente l’esplorazione e l’apprendimento, da parte del bambino, della sua esistenza. È un’esperienza preziosa, un percorso di conoscenza e di ri-conoscenza di qualcosa che sembrava perduto per sempre, e che ricomincia a nascere a poco a poco. È la fiducia della presenza dell’altro, l’addomesticamento alla sua esistenza, la condivisione di pensieri, emozioni, lacrime, micromovimenti emotivi e fisici commuoventi e indispensabili alla costruzione del rapporto, prima trasformazione di quello che avverrà in seguito.

Faccio questo mestiere da molti anni. È il mio lavoro. Da due mesi questo lavoro si è trasferito su di uno schermo del computer, il cosiddetto remoto. Ci vediamo a distanza, via Skype, via Zoom. Gli appuntamenti sono rimasti gli stessi, e dopo un iniziale adattamento, anche il contenuto dei colloqui si è adattato al nuovo strumento analitico. Non tutto è rimasto uguale. Manca il corpo di entrambi, manca la sensorialità, manca l’introduzione della sala d’aspetto, del corridoio, del campanello alla porta. Si entra direttamente nella stanza del paziente, che entra direttamente nello studio. È più intrusivo. La frequenza dell’analisi rimane la stessa, gli orari pure. Lo studio dell’analista è sempre quello, quella la poltrona. Ma il paziente ti riceve a casa sua, ti ospita in un contesto che fino a quel momento ti aveva solo descritto in modo metaforico. Vedi la sua stanza, oppure il suo bagno (molti si rifugiano in bagno durante la seduta). Oppure il salotto. C’è chi protegge il proprio spazio dall’intrusione degli altri membri della casa, chi lo lascia invadere tranquillamente, da figli, cani, gatti. Tu interpreti ogni volta, ogni cosa. Non cambia molto il tuo lavoro. Eppure c’è qualcos’altro.

Ci sono esperienze che non si possono evitare. Possono essere considerate universali, sebbene abbiano un particolare significato per ogni individuo. Ma ce ne sono altre che tendiamo a non pensare oppure che, se siamo costretti a viverle, cerchiamo di ignorare, ricorrendo al diniego e a vari meccanismi di difesa.

Quando si cerca di comprendere le vicissitudini psicologiche sperimentate durante una catastrofe sociale, quale è la pandemia che stiamo sperimentando, la prima risposta è quella di confinare il problema ad una distante regione geografica o mentale. Il meccanismo che consiste nel cercare di sbarazzarsi di qualcosa di scomodo è inerente all'apparato mentale. L'espulsione, la proiezione e l'auto-mutilazione sono meccanismi riconosciuti da differenti teorie psicoanalitiche come strumenti fondamentali utilizzati per consentire al soggetto di tollerare ciò che altrimenti apparirebbe un'esperienza intollerabile, la possibilità della morte.

Il compito paradossale da intraprendere è quello di trasmettere qualcosa la cui trasmissione è difficile e talora impossibile. Una difficoltà nel concettualizzare lo stato della pandemia ed il suo effetto sulla situazione psicoanalitica nasce dal fatto che sia i pazienti che gli analisti sono immersi nello stesso contesto; essi sono esposti alle stesse paure e alle stesse difficoltà nel percepire gli eventi. Quando analisti e pazienti stanno simultaneamente sperimentando le stesse ansietà o preoccupazioni derivanti dal contesto della loro vita quotidiana, parliamo di mondi sovrapposti.

Entrambi sappiamo che stiamo lontani fisicamente per proteggerci da un nemico invisibile, un virus insidioso, che non sappiamo chi dei due possa portare all’altro e contagiare. E la vicinanza, l’intimità di lunga data, si prolunga con qualcos’altro, la protezione reciproca dal contagio. Non dovremmo avere paura del contagio, il contagio psichico dell’angoscia, della disperazione, dell’irresolubilità del conflitto. Siamo, a questi, allenati, e come la madre, accogliamo il paziente in un simbolico abbraccio protettivo, che gli permette la crescita, lo sviluppo e l’individuazione.

Ma la paura della morte viene allontanata, come se davvero l’analisi potesse avere il potere di proteggere al di là di ogni senso comune. Come una madre, sempre e comunque, protegge il bambino.

Lo spazio analitico è inoltre inondato sia da un'abbondanza di informazione o di notizie sia dalla flagrante omissione di fatti correlati a ciò che è di pubblico dominio. Il mondo della vita quotidiana, che ha un carico altamente traumatico, viola la situazione analitica. Noi siamo preoccupati, per la salute e la vita dei nostri pazienti, per i rischi che si prendono, per la nostra salute e per i rischi che inconsapevolmente prendiamo. Questo entra nello spazio analitico come fenomeno aggiuntivo, e aumenta la condivisione e l’intimità della coppia.

È indispensabile per lo sviluppo dell'apparato mentale che esso sia capace di riconoscere gli stimoli, di ricevere segnali esatti e di comprendere il loro significato. La capacità di distinguere il sé dal non-sé, il mondo interno da quello esterno, il piacere dal dispiacere e il passivo dall'attivo sono principi essenziali nella formazione dell'apparato mentale. Perciò fa parte della funzione genitoriale, uno dei legami concatenati responsabili della trasmissione dei significanti del contesto sociale, il fornire al bambino significati sempre più complessi e differenziati fino a che l'io maturo acquisisca la capacità di far ciò da se stesso. Il riconoscimento della realtà esterna in analisi è direttamente correlato con la conoscenza e con le teorie che l'apparato mentale può formulare da sé, stabilendo connessioni, formulando giudizi, scoprendo relazioni causali ed usando il linguaggio. In questo modo gli individui incrementano la loro capacità di simbolizzare.

Ora, infiniti sono gli aspetti che il nuovo setting analitico a distanza ha offerto alla possibilità di simbolizzazione. Ai fini di questo lavoro, vorrei affrontarne uno, forse il più sofferto dai pazienti attualmente. La distanza. La distanza fisica. La distanza fisica dei corpi tra loro. Non più strette di mano, non più abbracci consolatori delle lacrime, non più sguardi apprezzativi del corpo, o stupiti dalle nuove acconciature, o piaceri inconsueti per nuovi profumi o stupori per odori sgradevoli. Né la cosiddetta fase due parrebbe portare maggiore intimità ai soggetti (con tutte le battute che la parola congiunti ha recato seco). A titolo esemplificativo riporto uno sfogo di una paziente avvenuto di recente. È una bella ragazza, singola da poco, e ahimè, da poco prima del lockdown. È rimasta in casa da sola, lavorando in smart working, in contatto con l’analista e con i numerosi amici e parenti che possiede. No, non posso definirla una persona isolata o autistica. Ma adesso è sola da mesi, distante fisicamente da tutti. In più, si è ammalata di una forma leggera di Covid. (Non pochi miei pazienti si sono ammalati). Lunedì uscirà di nuovo e tornerà al lavoro. Ma sarà attenta, attentissima. Il tampone pare sia negativo, ma non basta. Lei teme di contagiare qualcuno, o di essere nuovamente contagiata. Ed infine mi dice, piangendo disperata: “Ma io non ho nessuno cui potere fare una carezza, che posso abbracciare, che posso toccare. Quanto tempo ancora passerà prima di smettere di essere distante fisicamente da tutti? Quando potrò baciare qualcuno, sentire le sue mani vicine?” Ecco, mi sembra che la distanza sia questa fisicità adesso pericolosa, questa perdita di intimità corporea che è così indispensabile allo sviluppo del neonato e che accompagna tutta la nostra vita. Questa carezza data al malato, questo abbraccio al mattino al tuo compagno, al tuo bambino. Questa ultima carezza data al tuo congiunto defunto. Questa orribile distanza dei corpi tra loro, fatti per congiungersi, toccarsi, accarezzarsi. La supereremo mai, senza avere paura di essere portatori di contagi e non di affetti?

Immagine: Concept di consultazione online. Crediti: fizkes / Shutterstock.com

Argomenti

#lockdown#bambini#libertà