Il cibo è condivisione, fratellanza, incontro a tavola, come abbiamo scritto recentemente? Non sempre. «Ricordo un episodio alla fine degli anni Ottanta. I sei presidenti della ormai morente Federazione Jugoslava si erano riuniti in un pranzo, per un tentativo di conciliazione. Che la guerra fosse ormai inevitabile fu dimostrato dalla totale incompatibilità fra i sei menu richiesti ai cuochi dagli altrettanti presidenti. Lo sloveno, per rimarcare la propria appartenenza mitteleuropea, chiese i crauti; il serbo, che voleva dimostrare la sua appartenenza cristiana, contro i musulmani che ormai dilagavano alle porte della Bosnia, chiese carne di maiale. Il croato ordinò pesce, perché voleva sottolineare il suo potere di gestione dell’Adriatico e quindi del Mediterraneo. Il bosniaco era in ramadan e quindi chiese di rispettare il digiuno. Il montenegrino, essendo il più sfortunato di tutti e non avendo mire di potere, si limitò a chiedere una grappa. Gli unici concilianti furono i macedoni, aperti a qualsiasi tipo di proposta. E furono gli unici che poi non ebbero la guerra in casa».

L’aneddoto, gustosamente tragico, è di Paolo Rumiz ed è contenuto in un godibile testo di Laura Bolgeri, La memoria del gusto – Conversazioni sull’impronta del cibo, edito da poco da Cinquesensi. L’autrice dà la parola a una cinquantina di personaggi noti, tutti maschili («Nessuna donna in questo libro si racconta, ma dietro le donne ci sono eccome: madri, nonne, nutrici sono presenti in ogni storia», sottolinea la prefazione firmata da Antonio Bozzo), chiedendo quale sia nella loro vita il piatto della memoria. Ne esce uno spaccato che, attraverso il sapore, la pietanza, racconta storie personali però emblematiche, «nelle interviste scorre, come in un film, tutta l’Italia, da Nord a Sud», in un viaggio che è culinario ma non solo. Perché non si limita a tratteggiare la passione di Claudio Magris per il boreto, o quella di Ferdinando Scianna per mafalde e panelle, ma evidenzia quanto il cibo sia radice, carica evocativa, storia, dunque cultura. Identità, come abbiamo visto prima.

Il cibo è evocazione, per Gianni Amelio: “Rievoco gli odori presenti, allora, nell’aria (di Calabria, ndr), la terra mossa dell’orto, il profumo dei gelsomini selvatici e quello piccante del murzeddu, un piatto per me familiare che nonna Filomena cucinava spesso”. E, a proposito del rapporto uomo-donna ai fornelli, ricorda che al tempo “chi andava (in cucina) perdeva la propria virilità. Ai maschi era proibito entrare in quel regno tutto femminile”. Remo Bodei spiega: “Mentre le cose che vediamo sono definite, i sapori che coinvolgono i nostri sensi, prima di tutto il gusto e l’olfatto, non sono facilmente rappresentabili, hanno dei confini più labili. E il ricordo dei sapori resta come incapsulato dentro di noi e ha un grande potere evocativo (…) Sono stimoli che ci riportano a una parte intima di noi, a un tempo che sembrava dimenticato”. Edoardo Boncinelli: “Il percorso del gusto, nell’individuare un sapore, non è mai solitario, ma è accompagnato dall’olfatto e dalla vista. L’aspetto e l’odore di un cibo, quindi, sono molto importanti perché la corteccia cerebrale fa la sintesi dei vari stimoli, dei vari segnali. Così se voglio evocare un sapore e un episodio della mia infanzia, è l’olfatto che si mette in moto per primo”.

Il cibo è anche consolazione. Dario Fo: «È un elemento di equilibrio, un vincolo affettivo. È la mamma. Quando sono stanco, triste, di cattivo umore, mi faccio un risotto e sto meglio”. E come non ricordare un suo personaggio, lo Zanni, sorta di archetipo del povero, angosciato da una fame atavica, che giunge a ingoiare una mosca contento come se avesse mangiato un pollo succulento?

Il cibo è bellezza. Oliviero Toscani: “Una delle tante cose fantastiche che abbiamo in Italia, oltre al nostro patrimonio artistico, l’ambiente, il paesaggio, è il cibo, la nostra cucina. Più perfetta di un oggetto di design progettato alla scuola della Bauhaus è ad esempio la pizza. Tonda, saporita, colorata”. Il cibo è memoria. Marcello Fois: “I cibi dei pastori (sardi, ndr) fanno parte di una tradizione antica e in qualche occasione di festa anch’io li ho gustati. (…) Dalle mie parti si cucinava il ghiro arrosto e poi lo si glassava nel miele amaro di corbezzolo. Era una vera prelibatezza”.

Il cibo è dunque anche festa e rito. Giuseppe Tornatore: “Non amo cenare da solo e il fatto di stare a tavola è per me soprattutto un modo di stare assieme con gli amici, di raccontarsi delle storie non solo di lavoro. Con Mastroianni ad esempio è stata una bella esperienza. Per lui il cibo era un modo di comunicare, un rito, un piacere”. Pupi Avati: “Per un pranzo di fidanzamento, un menu di 22 portate era un classico dalle mie parti, in Emilia. Per un matrimonio il pranzo era duplice: 22 portate a casa della sposa a mezzogiorno e 22 portate a casa dello sposo la sera” (…) Era, da parte delle famiglie contadine, un’affermazione della propria identità”.

Ritorna la parola identità, specie per alcuni popoli. Peter Stein: “Come tedesco non sono abituato a parlare di cibo, i miei connazionali abitualmente non lo fanno, si stupiscono che altri lo facciano. E in effetti un amico, il regista Patrice Chéreau, mi ha raccontato di essersi meravigliato che, durante l’attesa delle prove al teatro Alla Scala, i personaggi del coro fossero così loquaci. Era un coro italiano, e si raccontavano a vicenda i menu”. Di nuovo Rumiz: “Nei racconti dei miei viaggi faccio sempre riferimento a un cibo, a un gusto, a qualcosa che consenta a chi legge di avere un’identificazione abbreviata dei luoghi. Il cibo è una rappresentazione dell’identità dei luoghi”.

Per fortuna la carica identitaria del cibo può anche essere aggregante, non come – lo abbiamo visto - fu in Jugoslavia. Salvatore Veca: “Se faccio il paragone con i gusti dei miei nipoti oggi, che possono trovare tutti i tipi di cibo ovunque, compreso il kebab, il cuscus, il sushi e una grande varietà di altri sapori, devo ammettere che per loro un cibo, anche se è un piatto esotico che non è familiare, non crea problemi (…) Conservare le tradizioni gastronomiche contribuisce a mantenere la stabilità culturale di un Paese o di una regione. Ma il cibo costruisce anche rapporti, scambi. Molti prodotti alimentari oggi sono legati a processi di globalizzazione che hanno trasformato il modo di produrre, di distribuire e di consumare il cibo. E questo fatto può costruire ponti tra le diverse culture, o barriere”.

Spiega Umberto Galimberti: «Il problema, in questo secolo nomade, diventa quello della diversità: anche se si resta attaccati alle abitudini alimentari di casa o a quelle dell’infanzia, occorre integrare le proprie esperienze con odori, profumi, sapori totalmente nuovi, senza dimenticare che quelli del paese natio hanno un potere di evocazione che suscita nostalgie senza pari. (…) Certo, abbandonare i sapori delle proprie origini per aprirsi alla diversità può essere molto difficile, perché i sapori e gli odori appartengono ai sensi più arcaici e alle sensazioni del gusto e dell’olfatto si associano spesso emozioni connesse a reazioni affettive”.

Qui entriamo ormai nell’ambito del cibo come scienza. Il caso (anzi, l’ordine alfabetico) vuole che la prima intervista sul “piatto della memoria”, cioè sul passato, sia a Ferran Adrià, lo chef che ha aperto le porte al futuro, alla scienza in cucina: «Una cosa è parlare della cocina de casa, la cucina casalinga di tutti i giorni, che riguarda la maggior parte delle persone ed è legata alle tradizioni e alle abitudini della famiglia; un’altra è invece parlare dell’alta cucina, una cucina elitaria, riservata a pochi, molto più complessa; una scienza, un’arte che utilizza tecniche elaborate. Una filosofia che mira alla bellezza e all’alta qualità dei prodotti”.

Il quadro tratteggiato dal catalano si applica solo parzialmente all’Italia. Dice Massimo Montanari: “In Italia c’è sempre stato un rapporto molto stretto tra l’alta cucina e la cucina popolare, in cui la presenza di verdure, erbe, radici, piante è stata rilevante. Tale legame ha garantito una straordinaria ricchezza e varietà di cibi e di sapori nella nostra storia dell’alimentazione. Una ricchezza che è certamente legata al territorio, alla varietà del paesaggio, ma anche alla nostra storia, e a questo rapporto socialmente forte tra città e campagna, tra cultura popolare e aristocratica”. Dunque, il cibo anche come storia. Salvatore Natoli conferma: “Nella manipolazione del cibo si può leggere la storia di un Paese, della sua economia, dei suoi costumi. Attraverso il gusto del palato, che è un atto materiale, ci si apre ad altre esperienze”.

Ma torniamo ad Adrià: “Attraverso il linguaggio della cucina posso esprimere creatività, poesia, ma anche nuove tecniche di ricerca concettuale e di contesti geografici e culturali, di mare, di prodotti ittici e di memoria».

È questo concetto, la cucina come tangente a molti rami del sapere, condiviso anche da molti che non vi hanno dedicato vita, pensieri e professione. Gualtiero Marchesi racconta di come Ermanno Olmi “un giorno mi disse che per lui la cucina è la più grande delle arti perché comprende la scienza, la fisica e la chimica”. Mimmo Paladino: “Credo che il cibo sia un fatto culturale molto importante, quasi quanto l’arte, perché esprime in maniera molto reale, autentica, le radici, i costumi e la crescita di un popolo”. Da altro ambito Dario Bressanini: “Ogni cuoco è in un certo senso un chimico. Anzi, secondo (il succitato, ndr) Marchesi, i cuochi sono chimici inconsapevoli. Gli scienziati oggi non vogliono buttare via tutti i consigli delle nonne ai fornelli. Anzi si tratta di analizzare il loro fondamento e di vedere quali siano oggi ancora validi”. E Giulio Giorello: “Io oggi riconosco che prepararsi un buon piatto in molti casi richieda una sapienza quasi scientifica. Del resto, Pellegrino Artusi intitolò il suo libro La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”.

Il cibo è anche un (possibile) diritto? Come ci ha spiegato Veca alla presentazione milanese de La memoria del gusto, «non bisogna disperdere quanto seminato durante Expo. Dobbiamo fare di questa città il centro di ricerca, studio e azione per la diffusione di un vero e proprio diritto al cibo. La Tour Eiffel di Expo 2016, quello che rimarrà, è un grande hub di conoscenza sul tema “feeding the planet”. Milano è naturalmente vocata a questa funzione: è sorta, con le sue marcite, per nutrire un castrum romano, vi è il genius loci, pensiamo agli studi di Verri sui sistemi agricoli o a quelli agronomici e d’ingegneria idraulica firmati proprio qui da Leonardo da Vinci. E poi siamo in Italia, un Paese affacciato sul Mediterraneo: si può dunque coinvolgere il Maghreb in un percorso che consenta anche di riscoprire le interazioni che ci hanno sempre caratterizzato. Bisogna creare un diritto al cibo e un diritto a produrlo, ossia la sovranità alimentare».

Il cibo, infine, è anche sogno. Risponde così Luca Novelli, alla domanda su quale cibo immagini si possa gustare in Paradiso: “Una macedonia di frutta con ananas della Guadalupa, banane della Tanzania, noci del Brasile, mango di Java, arance di Salamanca, zibibbo di Pantelleria, cannella dello Sri Lanka e grandi mele del Trentino”. Il paradiso è piuttosto vegano e non si fa problemi identitari. Il paradiso è cosmopolita e goloso. Amen.