Eventi sempre più estremi scuotono la Terra, seminando morte e distruzione. Non si erano ancora spenti gli echi delle catastrofiche esondazioni del Danubio, che hanno allagato mezza Europa ed ecco che, in rapida successione, due terribili tornado si abbattono su Oklaoma e devastanti piogge sommergono intere regioni dell'India. La macabra contabilità dei morti e delle distruzioni purtroppo non si ferma qui: proprio mentre scrivo la Cina è sconvolta da tempeste impressionanti e, quasi a fare da contrappeso, Brasile, Argentina, Cile e Colombia devono fare i conti con la peggiore siccità degli ultimi decenni. Ciò che colpisce è la frequenza oltre che l'estensione di questi eventi. Gli statistici, solo venti anni fa, avrebbero parlato di tempi di ritorno di oltre 100 anni. Ed invece basta rileggersi le cronache dello scorso anno per capire che ormai queste catastrofi si ripetono ogni anno. È la fine del mondo prevista dai Maya? No, si tratta di tragedie largamente annunciate perché è diventata realtà quel vertiginoso aumento degli eventi estremi previsto dai quattro rapporti sul clima, elaborati dall'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change).

Dunque per ben quattro volte la comunità scientifica, messa al lavoro dall'ONU, aveva avvertito i decisori politici che, in assenza di decisioni capaci di ridurre drasticamente le concentrazioni di gas serra in atmosfera, il pianeta e la sua popolazione sarebbero stati esposti a uragani, tifoni. Venti anni fa era solo una previsione su cui evidentemente era possibile agire per cercare di impedire che si trasformasse in realtà. Non lo si è voluto fare ed è per questo che è giusto ripetere che si tratta di tragedie annunciate. Così come è giusto attribuire l'intera responsabilità di quanto sta succedendo a coloro che avevano il potere e il dovere di prendere decisioni in grado di abbassare la febbre della Terra e invece hanno consapevolmente deciso di non farlo, rinviando il problema a tempi migliori.

Mette paura l'impressionante divario che si è accumulato, fra la velocità con cui cambia il clima del pianeta e la lentezza delle decisioni in grado di impedire o almeno contenere questi mutamenti. Colpisce anche la costante opera di sottovalutazione del problema da parte di quasi tutti i grandi media che finisce per far crescere nelle popolazioni assuefazione e rassegnazione. Come potrebbero non diffondersi, vien da chiedersi, se i principali giornali e televisioni di tutto il mondo alimentano la convinzione che uragani, inondazioni o siccità sono catastrofi naturali, figlie della natura maligna, occultando di conseguenza le responsabilità dei fallimenti di ben 18 vertici sul clima, convocati dall'ONU?

Per diciotto volte i cosiddetti “grandi della Terra” hanno rinviato al vertice successivo ogni decisione o obbligo, preferendo ascoltare i consigli delle lobbies del petrolio del carbone e del nucleare, anziché la comunità scientifica. Alla scontata obiezione dei numerosi scettici, particolarmente diffusi nel nostro Paese, che la scienza è divisa sulle responsabilità umane per i cambiamenti climatici, è utile rispondere con una piccola nota: dal 1991 al 2011sono stati scritti 11944 articoli scientifici sul cambio di clima, che hanno coinvolto 29.083 scienziati: il 98,4% di questi sostiene la responsabilità umana del riscaldamento globale (John Cook e coautori en IOP Environmental Reserch Lettars Maggio 2013).

È del tutto evidente che, se non si riuscirà a promuovere nei prossimi mesi un moto di indignazione popolare, anche il diciannovesimo negoziato sul clima, programmato per il prossimo novembre a Varsavia, è destinato al fallimento. Non sembra che le tragedie appena concluse, né tantomeno che quelle ancora in corso abbiano indotto i grandi leader mondiali a un cambio di passo.

I negoziati preparatori, infatti, proseguono come se niente fosse: Obama aspetta che i cinesi prendano impegni e viceversa, gli europei vorrebbero fare, ma poi producono più carta che fatti, così come il gigante brasiliano ed infine i piccoli stati protestano, ma non hanno alcun peso.

Questa politica suicida del rinvio ha un'unica spiegazione: l'enorme condizionamento che hanno le grandi compagnie del petrolio, del carbone e del nucleare su queste classi dirigenti.

Al balletto inconcludente sul clima si contrappone un quadro di decisioni già prese, queste sì assolutamente vincolanti, destinato a rivoluzionare gli assetti e gli equilibri della struttura energetica mondiale (esplosione del consumo in Cina e India e conseguente colonizzazione dell'Africa da parte dei cinesi, irruzione del continente americano come principale fornitore di petrolio e gas del mondo, imminente autosufficienza energetica degli Stati Uniti). In questo nuovo ordine energetico mondiale a farla da padrone non saranno le fonti rinnovabili e il risparmio energetico, cioè le energie amiche del clima, ma il petrolio e il carbone, nel quadro di un previsto aumento dei consumi, tutte scelte nemiche del clima.

È a tutti noto cosa si dovrebbe fare per fermare il cambio di clima. Ciò che manca è la volontà politica di farlo. La ricetta che la comunità scientifica ha proposto per diminuire la febbre della Terra è presto detta: da un lato promuovere politiche capaci di ridurre i bisogni di energia dell'umanità e in primo luogo della sua parte più ricca, sottoponendo il sistema a una cura di efficienza e modificando stili di vita dissipativi e dall'altro procurare l'energia effettivamente necessaria per garantire a tutti i servizi energetici fondamentali, quali illuminazione, riscaldamento, fresco, forza motrice, telematica e comunicazione, dalle fonti rinnovabili.

La domanda che a questo punto si impone è: è possibile e come creare la volontà politica per realizzare questo progetto? Invertire la tendenza è difficilissimo, ma possibile.

Abbiamo visto, in questo ultimo mese, una nuova generazione affacciarsi alla politica e farlo con strumenti nuovi, come internet. Certo indignarsi non basta, né si approda ad una nuova e più avanzata forma di democrazia politica solo attraverso internet e la rete. Dovrebbe però far riflettere e spingere all'azione che ad Istanbul la maggioranza della popolazione abbia sfidato il regime e la repressione per difendere un parco pubblico. Dovrebbero convincere a fare, i milioni di brasiliani che si sono mobilitati per polemizzare con le grandi opere legate ai Mondiali di calcio e per pretendere più trasporti pubblici, più salute e più istruzione. Ciò che si è visto in Turchia, Brasile, ma anche in Egitto, nonostante il discutibile sbocco avuto, spiega bene la dimensione e l'ampiezza della protesta e partecipazione necessarie se si vuole incidere sui negoziati climatici.

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