Death Stranding, la nuova e ambiziosa opera videoludica di Hideo Kojima (Metal Gear Solid), ha fatto parlare di sé per infiniti e ovvi motivi fin dal suo primissimo annuncio. Tacciato di tracotanza e snobismo da parte di alcuni detrattori, al contrario la gran parte dei fan del creatore di Solid Snake ha già acclamato Death Stranding come l’opera potenzialmente più importante su cui egli abbia mai lavorato. L’idea che un videogioco riceva i crismi del capolavoro ancora prima che sia effettivamente uscito, senza neanche passare per la canonizzazione della critica videoludica, restituisce d’altronde benissimo l’entità del fenomeno che vi si è creato intorno, frutto sicuramente di un’attenta campagna marketing, ma ancor più di idee che guardano al di fuori del recinto del gaming e dunque di una volontà da parte dell’autore di legarsi al mondo del cinema, medium considerato culturalmente alto laddove il videogioco, come tutti sappiamo, fatica ancora a trovare il suo adeguato riconoscimento all’interno dell’accademia.

Il Maestro Kojima non ha mai nascosto le sue aspirazioni cinematografiche, dichiarando che il suo corpo è composto «al 70% di film» e ancor più disseminando le sue esperienze interattive di momenti che esulavano totalmente dall’interattività, come i famosi intermezzi non giocabili (le cosiddette cutscene) la cui durata, in Metal Gear Solid 4. Guns of the Patriots, conclusione ideale della serie, superava tranquillamente l’ora abbondante, con buona pace di tutti coloro che tacciavano Kojima-san di aver ripiegato sulla creazione di videogiochi in quanto “regista fallito”.

In Death Stranding tali ambizioni sono state ulteriormente esasperate, complice il coinvolgimento di innumerevoli attori provenienti dal mondo del cinema e delle serie TV. Il protagonista, Sam, è quindi interpretato da Norman Reedus, già volto di The Walking Dead, mentre la sua probabile nemesi ha il volto inconfondibile di Mads Mikkelsen, interprete dell’Hannibal televisivo nonché maschera tragica in Valhalla Rising di Nicolas Winding Refn. Lo stesso Refn è presente nel gioco, o perlomeno le sue fattezze e la sua voce: Kojima sembra aver voluto dare spazio nella produzione a tutte le personalità che in qualche modo hanno plasmato la sua visione di autore, da cui anche la scelta di includere il regista Guillermo del Toro, già apparso nel secondo trailer di Death Stranding. Già dalla scelta dei personaggi coinvolti si evince la volontà di Kojima Productions di evitare gli errori del passato commessi da altri studi, usando Reedus e Mikkelsen non come semplici “cavalli di Troia” per lanciarsi nel mainstream, ma piuttosto come volti intensi capaci di raccontare con forza prorompente il tipo di storia che sarà alla base di Death Stranding.

Sono lontani i tempi, dunque, in cui Capcom coinvolse Jean Reno nella produzione di Onimusha 3, affinché si prestasse alla motion capture del gioco (la nota tecnologia che richiede di indossare le tutine con i sensori rotondi per catturare i movimenti dell’attore). Reno avrebbe definito in seguito quell’esperienza attoriale «la peggiore della sua intera carriera». David Cage, per il suo Beyond. Due anime, si avvalse invece della collaborazione di Ellen Page e Willem Dafoe; in quel caso non ci furono lamentele ufficiali da parte dei due celebri attori, ma di certo la tiepida reazione della critica nei confronti del gioco, soprattutto sul fronte dello storytelling, tarpò le ali alla possibilità per Beyond. Due anime di spiccare il volo nella cultura alta anche solo grazie alla partecipazione di Defoe, attore che ha lavorato nella sua carriera con registi del calibro di Lars von Trier.

Entrambe le esperienze ci raccontano, a loro modo, una verità: il semplice coinvolgimento di maestranze tecnologiche e personalità dal mondo del cinema non è sufficiente per elevare il videogioco dalla sua condizione subalterna rispetto all’arte ufficialmente riconosciuta. Non solo, la partecipazione di personaggi universalmente noti, come la Page e Jean Reno, provoca solo l’effetto di catalizzare tutta l’attenzione sulla celebrity, oltre a far concentrare media e critici esclusivamente sui loro ruoli, inevitabilmente sacrificati rispetto a film classici in cui possa emergere in maniera prorompente la loro personalità attoriale. L’errore più profondo, in questi casi, è stato probabilmente l’intenzione suicida da parte dei creatori del gioco di non indossare più le vesti di game designer, provando piuttosto a improvvisarsi registi senza tuttavia avere a disposizione le competenze tecniche e tecnologiche necessarie per superare quel gap che porta dall’amatorialità alla sacralità del grande schermo. Cage rimediò in gran parte a questo piccolo “flop” con il suo gioco successivo, Detroit. Become Human, che come Death Stranding affronta tematiche importanti offrendo un profondo commento sociale tramite il filtro della fantascienza videoludica. La visione di Quantic Dream, tuttavia, è diametralmente opposta a quella di Kojima, e si inserisce piuttosto nel solco della “neoavventura grafica”, ossia titoli che recuperano molto vagamente l’esperienza di classici come The Secret of Monkey Island, ponendo tuttavia l’accento sulle possibilità di scelta fornite al giocatore e sull’immersione ottenuta tramite l’impatto visivo e scenografico della produzione. Non sarebbe nemmeno così azzardato definire Detroit. Become Human, dopotutto, come una visual novel 3D: del resto, quando si parla di giochi narrativi, gli episodi della Sindrome di Asteroids sono destinati a moltiplicarsi in maniera drammatica.

Al contrario, Death Stranding sembra essersi collocato in una nuova dimensione del crocevia in cui cinema e videogioco si incontrano, dove il primo funge da ispirazione per ricchezza delle tematiche e profondità della storia, e il secondo è sempre e comunque in maniera assoluta il medium di riferimento su cui si lavora. Il problema insito nell’idea di “videogioco cinematografico” affonda le radici in tempi lontani, quando in seguito allo straripante successo delle avventure grafiche (The Secret of Monkey Island su tutte), vennero lanciati sul mercato degli esperimenti basati su filmati cinematografici, i cosiddetti FMV (Full Motion Video). Titoli come Phantasmagoria, nonostante le loro velleità autoriali, rimangono tuttavia dei bizzarri esperimenti, su cui spesso viene anche fatta facile ironia principalmente perché le performance degli attori coinvolti, spesso signori sconosciuti, lasciavano veramente a desiderare e con loro la qualità generale dello storytelling.

Negli anni, l’FMV si è evoluto leggermente come linguaggio, trovando la sua massima espressione nella serie Wing Commander, che vide la partecipazione di Mark Hamill (Luke Skywalker in Star Wars) e Malcom McDowell, interprete di Alex DeLarge in Arancia meccanica. Se un personaggio come Chris Roberts, creatore di Wing Commander, è riuscito a coinvolgere un attore che ha lavorato con Stanley Kubrick, è solo perché la storia che proponeva, i personaggi e il mondo che abitano, era interessante e ben scritta, nonché accompagnata da un gioco di enorme valore. Null’altro avrebbe potuto convincere Hamill o McDowell, che per giunta si sarebbero trovati a recitare su di un set al massimo equiparabile a quello di una serie TV anni Novanta di modesto successo.

Allo stesso modo, Death Stranding a livello di puro storytelling sicuramente ha da offrire qualcosa di elevatissimo ed entusiasmante, da cui il coinvolgimento sincero di Reedus e Mikkelsen. Ma laddove Wing Commander teneva ben separati gli elementi filmici e ludici, Death Stranding punta a una sintesi unica in grado di rivoluzionare il medium videoludico e il rapporto tra opere interattive e opere cinematografiche. Fin dal momento in cui Kojima-san ha cominciato a parlare di Death Stranding, infatti, l’autore ha messo bene in chiaro il tema del gioco, con un manifesto in cui viene sottolineata l’importanza di cambiare l’idea dei “bastoni”, del conflitto insomma, così radicata nell’uomo da portarsela dietro dai tempi delle caverne fino ai videogiochi contemporanei. Al contrario, Kojima ha offerto una nuova visione di videogioco, basata sulla necessità di mettere gli “strand”, i fili, al centro del gameplay, dando vita a qualcosa che sia in grado per la prima volta di creare connessioni, rifuggendo il concetto di divisione e crisi che è invece insito nell’interattività fin dai tempi di Super Mario Bros. Da qui nasce anche la scelta di Kojima di proporre, come ha sempre fatto, anche un livello di difficoltà bassissimo, selezionabile esclusivamente da chi lo desidera: una visione totalmente contrapposta a quella di Hidetaka Miyazaki, creatore di Dark Souls, che riconosce nella difficoltà la purezza integrale della sua opera. Al contrario, Kojima vuole che chiunque sia in grado di sperimentare la sua bizzarra vicenda umana fatta di fili e collegamenti soprannaturali, e coglierne il significato. Unire, dunque, passa anche per incentivare l’inclusività di ogni tipo di giocatore, rifuggendo così la chiusura mentale dell’hardcore gamer e guardando al conscious gamer.
Kojima ha peraltro scelto di affrontare questo tema in un momento storico cruciale, in cui i fili vengono recisi e, al contrario, vengono eretti pericolosi muri concettuali e fisici: il rifiuto della narrativa trumpiana e la decisione di sublimarla attraverso l’arte, si colloca d’altronde perfettamente nella volontà da parte del game designer di avvicinarsi a Hollywood, complici tutte le personalità che ha coinvolto, nella consapevolezza forse che i videogiochi per essere davvero significativi hanno bisogno di affrancarsi da palcoscenici che talora ne sviliscono il potenziale culturale, riconducendoli allo status umiliante di mero prodotto. In quest’ottica, è fondamentale riconoscere la precisa scelta da parte di Kojima di non rifuggire la natura interattiva della sua opera: al contrario, ogni tematica che dà forma a Death Stranding, e in primo luogo gli strand, è raccontata attraverso il game design, ovvero le meccaniche di gioco, ciò che l’utente compie all’interno dell’ambientazione tridimensionale. Paradossalmente, Death Stranding rischia di essere molto più vicino a Super Mario Odyssey che a Detroit. Become Human; tuttavia, se chiaramente il salto di Super Mario è espressione di gioia fanciullesca, ogni azione ludica e interattiva di Death Stranding sembra già da adesso essere foriera di significanti importanti per la società, ma soprattutto per noi stessi, gli esseri umani, veri protagonisti di tutta la poetica di Kojima e che ancora una volta saranno raccontati in Death Stranding in tutta loro fragilità, complessità e straordinarietà.

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