Nostalgia della Prima Repubblica? Chi non l’ha avvertita, in questi anni di leggi ad personam, di nipotine di Mubarak ed ex fotomodelle promosse a ministro? Eppure, la nostalgia è un sentimento ingannevole. Come diceva Indro Montanelli, gli italiani decrepiti rimpiangevano il fascismo soprattutto perché il «ventennio» aveva coinciso con la loro giovinezza. Ora un documento straordinario – i diari 1978-85 di Antonio Maccanico, segretario generale al Quirinale durante la presidenza di Sandro Pertini – contribuisce a demistificare una Prima Repubblica che in realtà già inglobava i prodromi della seconda. A ben vedere, le sontuose feste veneziane allestite dal gaudente De Michelis prefiguravano le cene eleganti in quel di Arcore. L’odio ideologico di Craxi per i magistrati anticipava le campagne della stampa berlusconiana contro le «toghe politicizzate». Il declino del Pci, sempre più pesce fuor d’acqua nei «dorati» anni Ottanta, preludeva all’inconcludenza di Pds, Ds e Pd. Per non parlare dell’ingenuo populismo di Pertini, che racchiudeva in nuce i ben più virulenti populismi a venire. È forse questo l’aspetto centrale del diario. Più che un segretario, Maccanico si sente una balia, terrorizzata dall’incontinenza verbale del Presidente. Ma i cittadini apprezzavano moltissimo le sue esternazioni fuori protocollo, quasi sempre un brillante concentrato di luoghi comuni. Segno che, ieri come oggi, gli italiani prediligono i capipopolo con il sole in tasca, rispetto agli statisti color fumo di Londra, capaci soltanto di dire la verità promettendo lacrime e sangue. D’accordo: siamo già nella fase crepuscolare della Prima Repubblica. Forse gli anni Cinquanta e Sessanta erano stati più edificanti («l’età dell’oro», secondo alcuni storici). Resta il fatto che il diario di Maccanico ritrae un paese levantino, immerso in una palude di trame indicibili (basti citare l’attacco a Bankitalia, con l’arresto di Baffi e Sarcinelli, propiziato da Andreotti), veti incrociati, ringhiosi corporativismi, estenuanti crisi di governo. Era sufficiente lo starnuto di un sottosegretario socialdemocratico per innescare la «verifica» (ve la ricordate?), seguita dall’immancabile «rimpasto». Ma tali spifferi non scalfivano il cuore del potere reale. Questo è il dato inconfutabile, al di là della rivalità fra Craxi e De Mita o delle baruffe chioggiotte caratterizzanti il litigiosissimo «pentapartito». Infatti, tutti costoro «vissero insieme e insieme caddero», dopo l’arresto di Mario Chiesa nel 1992. Del resto, come aveva annotato il diarista sin dal ’79, la Repubblica era ormai alla frutta. Un degrado provocato più dai partiti – incapaci di autoriformarsi – che dalla presunta inadeguatezza delle istituzioni in genere. D’altro canto, persino una persona qualificata e perbene come Maccanico (ex normalista, dapprima azionista, poi comunista sino al ’56, infine di simpatie repubblicane) reputava fisiologico che il «Palazzo» addomesticasse – di concerto con i giudici istruttori capitolini o con gli ermellini della Cassazione – alcune inchieste delicate. Si può dunque immaginare quale shock culturale sia stato per il ceto politico della sua epoca scoprire, con Tangentopoli, l’indipendenza di Procure guidate da magistrati non più malleabili. Per ultimo, sia lode al curatore Paolo Soddu. In un fittissimo diario, traboccante d’incontri di alto livello (Capi di Stato, ambasciatori, militari, magistrati, cardinali, monsignori, aristocratici, imprenditori, finanzieri, boiardi, sindacalisti, intellettuali, artisti, scienziati, giornalisti), è riuscito a dare un’identità a tutti quanti. Un compito non facile, considerando che nel frattempo i più sono diventati illustri carneadi. Sic transit gloria mundi

Antonio Maccanico, Con Pertini al Quirinale. Diari 1978-1985, a cura di Paolo Soddu, prefazione di Eugenio Scalfari, il Mulino, Bologna 2014, pagg. 592, € 36,00.