Il 20 aprile alcuni festeggiano, naturalmente in via non ufficiale, la giornata della Cannabis. Non è molto chiara l’origine dell’associazione tra il numero 420 e la Cannabis: forse nacque per gioco in un gruppo di ragazzi, o forse si riferisce all’orario 4:20 p.m., in cui alcuni ritengono sia accettabile iniziare a consumarla, poi trasposto in data secondo il modo di scriverla all’americana; in ogni caso è nata ed è diffusa soprattutto negli Stati Uniti.

Dagli Stati Uniti venne anche il principale impulso alla sua proibizione, per quanto concerne l’uso ricreativo. Fino agli inizi del Novecento, infatti, il consumo di hashish e marijuana era tollerato in Europa, in America e altrove, e rare erano le legislazioni locali che se ne occupavano.

Fu tra gli anni Dieci e, soprattutto, Venti che iniziò a diffondersi la convinzione nella maggior parte degli Stati americani che fosse opportuno prendere provvedimenti, nel clima più generale di proibizionismo che aveva investito il Paese. Nel 1919, come noto, venne introdotto il Volstead Act, che vietava addirittura a livello costituzionale l’uso ricreativo dell’alcol e nel corso degli anni Venti proliferarono le legislazioni sulla canapa, sebbene ancora solo a livello statale.

A fronte dell’insuccesso del bando degli alcolici, revocato nel 1933, molta più fortuna ebbero però i provvedimenti sulla Cannabis. Di essa facevano consumo per lo più le minoranze – soprattutto quella messicana, particolarmente invisa –, mentre i bianchi preferivano senz’altro l’alcol. Questo aspetto non mancò di essere registrato nella letteratura scientifica dell’epoca: per esempio, in un articolo del 1931 si affermava che «la razza dominante e le culture più illuminate sono per l’alcol, mentre le razze e gli Stati dediti alla canapa e all’oppio […] sono deteriorate sia mentalmente che fisicamente» (A.E. Fossier, The marijuana menace, in New Orleans medical and surgical journal, 84, 4, 1931, p. 249); e nel 1937 Harry J. Anslinger, a capo del Federal bureau of narcotics, tra i principali promotori del proibizionismo, insistette di fronte al Congresso in particolar modo sull’aspetto razziale, associandone il consumo agli ambienti neri del jazz o a contesti simili. Nel 1937 venne infine emanato il Marihuana Tax Act che introduceva la proibizione del consumo ricreativo a livello federale.

Analoghe legislazioni furono gradualmente adottate in Europa. In Italia la campagna americana trovò in epoca fascista una risposta positiva nel regime. Nella voce Ḥashīsh della Enciclopedia Italiana Treccani del 1933 si legge: «L’uso prolungato di questa, come quello di ogni altra droga voluttuaria, produce gravi fenomeni di intossicazione (cannabismo), e questa certamente non è l’ultima causa della decadenza fisica e morale delle popolazioni orientali» (e, assai curiosamente, si suggerisce per gli stati di intossicazione acuta il consumo di bevande alcoliche). Insomma, valutazioni di ordine culturale ebbero un grande rilievo nelle scelte proibizionistiche di questa sostanza, di cui dal punto di vista medico si conosceva ancora molto poco.

A livello internazionale, la materia rimaneva comunque regolata da quanto stabilito dalla Convenzione internazionale del 1925, in cui la proposta di bandire del tutto l’esportazione della Cannabis prodotta in India era stata respinta, e ancora si lasciava ai diversi Paesi la possibilità della produzione, della vendita e del consumo a fini ludici. Fu infatti solo con la Single Convention on Narcotic Drugs, il trattato internazionale approvato dall’ONU nel 1961 e sottoscritto da 183 Paesi, che questa sostanza venne bandita su larga scala, imponendo agli Stati aderenti di vietarne il consumo a scopo ricreativo, compatibilmente con le garanzie costituzionali locali.

Negli ultimi anni tuttavia si è assistito alla diffusione di una crescente tolleranza, sfociata addirittura nella parziale liberalizzazione della vendita per finalità di consumo ricreativo in Olanda, in Spagna e in diversi Stati americani. Inoltre, con una pronuncia del 4 novembre 2015 la Corte suprema del Messico è pervenuta alla conclusione che la protezione costituzionale della libertà di espressione impedisca alla legislazione sovranazionale (e quindi a maggior ragione a quella nazionale) di vietarne il consumo ricreativo.

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