Lo credevamo un ricordo romantico passato a miglior vita, ma il vinile è tornato a graffiare sul piatto. In pochi avrebbero scommesso che il poetico mezzo d’ascolto che ci ha permesso innumerevoli volte di trasformare la musica in un’esperienza fisica e visiva, anni dopo la sua scomparsa dalla scena musicale avrebbe influenzato ancora i gusti dei più esigenti. E in effetti è vero, l’esperienza del vinile è stata come una vera e propria influenza ricomparsa dopo la guarigione per via di un virus contagioso.

Introdotto nel 1948 sul mercato negli Stati Uniti d’America dalla Columbia Records come fratello minore più evoluto del 78 giri, il disco in PVC ha goduto di gloria fino agli anni Ottanta. Nel decennio per alcuni tratti più rivitalizzante della storia recente – nel rigetto delle espressioni culturali ideologizzate e nel fluttuante delinearsi di stili di vita e abitudini rutilanti – l’incursione delle musicassette e del compact disc ha rimpiazzato il vinile, avvolgendolo in un velo d’ombra che lo ha occultato e annoverato tra gli oggetti di un modernariato desueto e impopolare.

Con la produzione drasticamente interrotta negli anni Novanta – momento in cui il panorama musicale si è infiammato nuovamente di personaggi iconici estremamente rock and roll che hanno avuto il potere di caratterizzarne il corso e il ricorso storico – nella seconda metà dei Duemila, proprio nel punto d’incontro con le nuove funzioni digitali, il famigerato disco analogico è stato riaccolto a braccia e orecchie aperte con l’entusiasmo che travolge quando si ritrova un vecchio amico perso di vista anni prima. Il motivo? Squisitamente nostalgico.

Secondo la British phonographic industry, infatti, le vendite del vinile nel mercato musicale globale nel 2016 ammontano a ben 3,2 milioni di esemplari, con un clamoroso aumento del 53% rispetto all’anno precedente. Non più, dunque, un prodotto di nicchia. A darne ulteriore conferma ci pensano i dati sulle vendite in calo dei CD e sul tracollo (letteralmente) dei download, pari a 18 milioni. A farla da padrone, però, rimane sempre lo streaming, che surclassa tutti con 45 miliardi di brani ascoltati in Rete.

Se i miti sono miti e non si possono smitizzare neppure (e sopratutto) da morti, resistendo alla memoria in quanto persone fuori dal comune per capacità, talento e carisma, ecco che a cavalcare l’onda energizzante del vinile torna in scena perfino George Harrison. La famiglia del più mistico e illuminato dei Beatles, scomparso nel 2001, ha annunciato all’inizio dell’anno l’uscita di un imperdibile box-set contenente tutti gli album della carriera solista dell’artista stampati in vinile 180gr (un formato più pesante della norma per dare maggiore stabilità e garantire una riproduzione migliore), rimasterizzati grazie alla disponibilità delle leggendarie registrazioni effettuate nei Capitol Studios di Los Angeles.

A supportare l’ascolto dei 12 album il giradischi George Harrison Essential III, prodotto in 2500 pezzi ormai introvabili e disegnato da Pro-Ject Audio Systems, uno dei leader del settore. Inutile dire quanto l’operazione abbia mandato i fan di George Harrison, gli audiofili e i collezionisti delle rarità in vinile in preda al più folle bisogno di possesso.

In attesa della contromossa del digitale spodestato – armato fino ai denti, intenzionato a dichiarare guerra e a garantire (sempre e comunque) una qualità audio senza fruscii e salti –, mentre buona parte degli artisti e delle band mondiali non manifestano alcuna perplessità a mettere sul mercato anche una versione dei loro lavori per giradischi, mentre il virus si diffonde e la febbre continua a salire, l’amato vinile si gode il suo rinnovato successo ancora ambizioso, rampante e adolescente come nel 1948. Perché, se vero è che di essere per sempre giovani (for ever young, parafrasando Bob Dylan) non si finisce mai, è altresì vero che il fascino della puntina che graffia sui solchi resterà in eterno uno dei più sublimi piaceri legato all’ascolto e all’educazione sentimentale di ogni appassionato di musica.