Cosa c’è di più deprecabile di una baraccopoli, in una grande città asiatica? Una infinita letteratura, ma anche tante opere cinematografiche e documentari, hanno assecondato la nostra istintiva repulsione verso quelle realtà. Un rapporto speciale sugli slums di Delhi, pubblicato sul settimanale “India Today”, presenta però la questione in modo diverso.
I numeri, anzitutto, impressionanti. Il 49% dei quasi 17 milioni di abitanti nella capitale della grande nazione indiana vive in baraccopoli, slums appunto, o in realtà a queste equiparabili. Insediamenti spontanei abusivi, spesso collocati in aree pregiate, centrali o semicentrali, della città. In occasione dei Giochi del Commonwealth del 2010, molti slums vennero smantellati, altri vennero coperti alla vista da mura per evitare di mostrare ai visitatori la vergogna di questi insediamenti. Si parla oggi di eliminarli del tutto entro il 2015. Tra i motivi dichiarati quelli che gli slums costituiscano una realtà improduttiva oltre che imbarazzante, che essi non siano sostenibili sotto il profilo della qualità di vita e anche pericolosi per chi vi abita collocati come sono spesso sulle rive di fiumi, vicino a ferrovie, ecc.
È noto che negli slums di città come Delhi o ancor più Mumbai non vivono solo disperati. Chi vi è ospitato ha spesso un lavoro: autisti, elettricisti, idraulici, uomini e donne a servizio nelle case della classe media, vi sono poi funzionari pubblici, professionisti, impiegati a vario titolo nell’economia nuova: settori tecnologici e finanziari (spesso questa situazione è legata al costo proibitivo degli immobili in India). Secondo alcune ricerche non v’è di fatto differenza tra gli impieghi di chi vive nelle baraccopoli o al di fuori di esse. Tutte le professioni sono rappresentate allo stesso modo: ennesima singolarità indiana.
Questa constatazione, spiega Partha Mukhopadhyay (http://www.cprindia.org/users/partha-mukhopadhyay), docente e ricercatore impegnato in diversi importanti progetti di sviluppo, governativi e non, smentisce il primo dei pregiudizi presentati circa la condizione degli slums: dimostra che i loro abitanti partecipano a pieno titolo alla vita produttiva della città, che ha peraltro estremo bisogno di loro. Smantellare gli slums priverebbe Delhi di una quota importante di forza lavoro che non si sa dove andrebbe a finire.
Ma il ricercatore indiano evidenzia un altro aspetto. Gli slums, nella specifica realtà indiana, ossia quella di una nazione impegnata in un poderoso sforzo di trasformazione riguardante 1 miliardo e più di 200 milioni di cittadini, costituiscono dei “punti d’ingresso flessibili” alla città e alla sua vita produttiva, un biglietto a basso costo per accedere al percorso che può condurre fuori dalla povertà (la popolazione di Delhi, rivela il censimento 2011, è cresciuta del 20% nell’ultimo decennio). Sono posti dove si vive con poco, si può lavorare e costruire una vita migliore contribuendo ad alimentare il motore dell’economia cittadina. Chi ci vive, quando inizia un percorso positivo, si impegna poi a migliorare la propria condizione anche sotto il profilo abitativo rendendolo meno squallido e prende a domandare alla politica migliori servizi (processo che il ricercatore dice essere già in atto con effetti molto positivi). Eliminare gli slums, conclude, renderebbe la città inaccessibile e invivibile per i più poveri e rallentare la trasformazione dell’India. Bisogna assecondare, conclude, il processo graduale di trasformazione delle baraccopoli fino ad arrivare ai risultati raggiunti a Kowloon ad Hong Kong o nella Central Area di Singapore.
Si tratta, dice, del modo più virtuoso per affrontare il problema. Tutte le altre soluzioni sono destinate a fallire. Ad esempio quella di sanare gli abusi e consentire di divenire proprietari della baracca in cui si vive. Una soluzione solo apparentemente positiva che creerebbe però dei conflitti insanabili tra coloro che già pretendono di essere proprietari o che si comportano come se lo fossero e i loro affittuari. La possibilità attirerebbe poi gli interessi di soggetti estranei agli slums che non si farebbero sfuggire l’occasione di acquisire proprietà preziose in aree spesso molto appetibili e dall’altissimo valore di mercato, il che allontanerebbe dalle baraccopoli gli abitanti originari (a Mumbai, la soppressione di molti slums - i cui abitanti sono stati collocati in nuovi quartieri lontani dal centro - ha consentito ricchissime speculazioni immobiliari). Cancellare le baracche estirpandone gli abitanti per sostituirle con grattacieli destinati ai ricchi non appare a Mukhopadhyay la giusta strategia. La scelta potrebbe apparire ispirata a “pietà”, ma potrebbe creare situazione più dolorose di quelle compassionevolmente (nella migliore delle ipotesi) sanate: va ricordato il dato del 49% della popolazione di Delhi che vive in quel genere di realtà, 8 milioni di individui.
In quanti modi diversi ci si può confrontare con la “città della gioia”, insomma (e di altra rilevante interpretazione si era detto qui in passato https://www.treccani.it/magazine/cultura/un_libro_che_sorprende.html commentando un volume bellissimo ora tradotto anche in italiano http://www.edizpiemme.it/libri/belle-per-sempre ). Sarebbe bene essere più consapevoli anche noi dell’intero dibattito sul ruolo e funzione delle città nel nostro tempo e che si discutesse apertamente di evoluzione degli scenari urbani così come si discute di tasse ed economia o di altri popolari temi. La discussione indiana di cui si è dato conto pare rovesciare il pregiudizio negativo sugli slums ponendo al centro chi ci vive. Guardando le nostre città, dai centri storici violentati da abusi e da attività commerciali del tutto avulse dalla straordinaria qualità dello scenario urbano che le ospita; caratterizzate da una furia costruttiva legata ad interessi più che ad esigenze reali; da decenni non più riguardate da progetti di edilizia popolare e dove sostanzialmente mai ci si è curati della tragedia dell’allontanamento dalle proprie abitazioni delle famiglie dei meno abbienti che le avevano occupate magari per secoli (creando un vuoto sociale e culturale nei centro città e orrori di ghetti come Scampia, per fare l’esempio più banale), sembra che l’individuo con le sue esigenze sia stato da troppo tempo trascurato, ignorato, anzi.

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