“È una città slegata, dispersa, deforme,
che rappresenta piuttosto la sosta d'una razza pellegrinante,
che la potenza d'uno Stato immobile; un immenso abbozzo di metropoli;
un grande spettacolo piuttosto che una grande città”
Edmondo De Amicis, Costantinopoli, 1923

“Questo è il ventre caldo della città: qui c’erano Galata e Pera, zone franche dove nascevano idee e si cercavano alternative, non un posto per sultani. Qui c’è la nostra isola, il nostro rifugio del possibile” racconta Zehra, co-proprietaria del “Neverland Hostel”, occhi neri e profilo persiano tra i capelli raccolti in una treccia lunghissima. L’isola che non c’è si nasconde tra le stradine strette e ripide di Beyoglu, il quartiere più europeo e borghese di Istanbul: il Bosforo placido a sud, la Moschea Blu lontana, oltre il ponte. A due passi da Iskital Caddesi, lo stradone centrale che accoglie senza distinzioni turisti e turchi affaccendati tra centri commerciali, gelati, caffè in stile francese e chioschi che offrono fresche cozze al limone o succo di melograno.
Il “Neverland Hostel” è una comunità di artisti, ribelli, politici e turisti: tutti insieme ospitati in stanze doppie e camerate con letti a castello e prezzi accessibili, dai 5 euro in su a notte. L’ostello è il “braccio turistico” dei ragazzi di Gezi Park, del movimento che negli ultimi tre anni ha messo in discussione la politica conservatrice e islamista del premier turco Erdoǧan. Nel 2013 le rivolte si sono concentrate su Piazza Taksim, l’enorme slargo d’asfalto che ha divorato alberi e giardini, per poi approdare come voto di cambiamento alle ultime elezioni presidenziali. A giugno del 2015 l’HDP, partito curdo di sinistra, è entrato per la prima volta nel parlamento turco grazie al voto di migliaia di giovani e a prese di posizione radicali sul tema dei diritti civili e ambientali.
Il Neverland Hostel è uno di quei piccoli angoli meticci che negli anni hanno giocato a scacchi con il potere, un po’ intellettuali un po’ ruffiani. Sabato nei locali a ballare, lunedì assemblea di quartiere. Qui si intrecciano i fili tra nuova società turca e popoli del Mediterraneo in subbuglio. Turisti italiani e francesi si confondono e domandano, alla ricerca dei segreti e dei protagonisti della “primavera turca”. Giovani arabi e nordafricani qui si riparano e rivestono, in fuga dai fantasmi delle rivolte fallite in Medio oriente e nord Africa.
Sono tutti in attesa di una possibilità, di un permesso, un segnale: l’ennesimo fischio d’inizio.
Nato nel 2008, l’ostello fiorisce dal recupero di una fabbrica tessile nel pieno centro di Istanbul, grazie all’opera di un gruppo di donne e uomini: metropolitani con spirito europeo, islamici dai jeans a vita bassa, un mix di turismo, multiculturalità, arte e politica.
Murales visionari abbelliscono le pareti delle stanze e della grande cucina comune. Adesivi e poster di manifestazioni e forum ambientalisti rivestono le pareti della hall.
Caraffe di çay fumante, il tè sorseggiato in maniera ossessiva dai turchi in un piccolo bicchiere di vetro a forma di tulipano, sedie in legno duro color vermiglio e tappeti di musica elettronica che rincorrono armonie mediorientali. I dettagli come gli ospiti dell’ostello sono un concentrato di lingue e di passioni, un flusso di storie in cerca di un palcoscenico.
Osman, 28 anni e un pizzetto acuto a squadrare il viso, è un fiume in piena che travolge residenti e visitanti. Rincorre libri e battute perse negli angoli della saletta relax, distribuisce versi di Brecht a piene mani. Attore di teatro in cerca di un mentore, pantaloni a palazzo neri e corti sotto le ginocchia, attitudine post punk e Berlino negli occhi, Bisanzio tra le mani. “Sono fuggito dalla campagna per prendere parte al più grande spettacolo del mondo: Istanbul!” anticipa i suoi spettacoli serali improvvisati a una platea di turisti spagnoli, sporchi e stanchi.
Mattina: il muezzin si arrampica sulle note di una preghiera, il quartiere della movida si sveglia lento e le colazioni del Neverland sono cascate di tè e caffè su distese di olive, formaggio, pane e yogurt magro.
“Adoro questo posto, qui ognuno è aperto alle differenze, lava i propri piatti e fa la raccolta differenziata”. Claudia, biologa tedesca, guida un gruppo di ex-no global alla ricerca del cumino perfetto nel Gran Bazaar e dei segreti di Piazza Taksim. Annegata nella risacca delle lotte globali dei primi anni Duemila, ogni anno a ottobre trova riparo tra le mura del Neverland, raccoglie consigli e studia la lingua. Indaga i sogni e le speranze della nuova “swinging Istanbul”, quella che balla il rock tra veli di lino e piercing, che si agita coniugando islam e democrazia.
Nella sala principale, una panchina gialla corredata da cuscini di seta è la tana di Shah Riar. Iraniano, 31 anni, ingegnere e protagonista della rivoluzione verde che non fu. Parcheggia il computer portatile e i suoi piedi enormi tra la scacchiera e la libreria comune: aspetta una video-chiamata dal Minnesota e la terza convocazione in sette mesi dall’ambasciata americana. Nel pomeriggio muove i pedoni e perde entrambi gli alfieri con un turista polacco. Il tempo è una gabbia dorata: è in attesa di un visto per gli USA dove lo aspettano una turista incinta e un Wall Mart di possibilità con stipendio fisso, ferie e malattie pagate.

Vista da qui, tra le piccole finestre a specchio del Neverland,  Istanbul è l’eterna porta girevole d’Europa: di espatriati ed illusi, di ribelli in fuga e illusionisti in marcia. Qui è sempre l’ultimo giorno di carnevale: nascono alternative e si cercano i futuri approdi.
Sulle mura una vernice sbiadita prende forma: “Da qui salpa la Turchia possibile, il molo è un’isola che non c’è”.