Intervista a Giuliano Amato, giudice della Corte costituzionale, ex presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana

Il dibattito sulle caratteristiche che dovrà avere la ripresa delle attività dopo la quarantena si interseca con quello sugli strumenti europei di sostegno ai Paesi colpiti più duramente dalla crisi sanitaria. Su questo fronte ci pare di rilevare l’incapacità da parte di molti di leggere la complessità dei processi europei e quindi di governarli. È questo l’ennesimo esempio di mancanza di politica?

La politica c’è, ma ha un’ispirazione fortemente nazionale, più interessata a ottenere consenso sollevando sentimenti antieuropei, che non a ottenere in sede europea ciò che lì potremmo avere per sollevare noi stessi dalla crisi attuale. Chi conosce l’Europa non fatica a capire che, se noi abbiamo i nostri interessi nazionali, anche gli altri hanno i loro e un accordo non lo si raggiunge stando fermi ciascuno sui propri. Bisogna essere flessibili quanto serve e trovare con gli altri il possibile punto di incontro, che non è necessariamente il minimo comun denominatore, ma ben può essere, se si è capaci di trovarlo e di farlo trovare, l’interesse comune. Così ci dovremmo muovere nei processi europei. E di sicuro non ci rimetterebbero i nostri interessi nazionali**.**

Tanto si dibatte sugli strumenti di sostegno e sulle leve da utilizzare in ambito nazionale per salvare e far ripartire le parti del sistema economico più colpite dal lockdown e tutelare così produzione e occupazione. Quali criteri dovrebbero, a suo parere, guidare questi interventi?

La strada scelta è quella giusta, e cioè, da un lato non far mancare alle imprese le risorse di liquidità necessarie a fronteggiare i loro impegni e a far ripartire le loro attività, appena possibile; dall’altro fornire a chi li sta perdendo gli essenziali mezzi di sussistenza, si tratti di cassa integrazione, indennità di disoccupazione, o reddito di emergenza. Le prime volte che si leggeva, anni fa, della possibile necessità dell’helicopter money, cioè dei soldi gettati dal cielo, sembrava una fantasticheria. Ora ci troviamo a realizzarla, a doverla realizzare. E nel breve periodo, per aspettare e rendere possibili tempi migliori, può funzionare. Mai, in passato, ci sono state coperture così ampie e il progresso, rispetto ai tempi della spagnola, cento anni fa, è enorme. Attenzione però, il diavolo è sempre nei dettagli e lo troviamo anche qui, nelle complicazioni che allungano ciò che dovrebbe essere breve, anzi immediato.

Da più parti, del resto, già si rilevano alcune lentezze e inefficienze nell’erogazione delle prime forme di sostegno, dovute in gran parte a procedure lunghe e farraginose e alla molteplicità dei soggetti coinvolti. Quali strumenti e accorgimenti è possibile utilizzare in una fase come quella attuale che imporrebbe invece interventi rapidi e certi?

Appunto, il problema è proprio qui. Io lo capisco: dare i soldi a babbo morto è anche un rischio, perché gli imbroglioni a carico del contribuente non ci sono mai mancati e si affolleranno anche in questa occasione. Liberarci dalle procedure, quindi, non possiamo. Ma potremmo percorrerle rapidamente, riducendo gli adempimenti e riscontrando senza perdite di tempo ciò che è necessario sapere. Oggi, se la polizia vi ferma mentre siete in macchina, non vi chiede più di documentare che avete pagato il bollo e l’assicurazione. Lo sa già, lo trova nella banca dati di cui dispone, andando al vostro nome e alla targa della macchina. Ebbene, perché nella vicenda attuale a chi chiede la liquidità prevista vengono richieste documentazioni e attestazioni per cose che agli uffici dovrebbero essere già note? E ‒ si badi ‒ a farlo non sono solo gli uffici pubblici. È esperienza di questi giorni dei piccoli imprenditori che si sono rivolti direttamente alla banca per i piccoli prestiti sino a 25.000 euro, spedendo per email l’unico modulo che sembrava necessario. Si sono sentiti chiedere valanghe di documentazioni. Non dovrebbe la banca sapere già tutto ciò che serve e che va oltre quel modulo? È qui che casca l’asino; il nostro asino, il quale gli strumenti li ha, ma non li usa.

Interi settori dell’economia italiana, pur se rilevanti in termini di ricchezza prodotta e lavoratori occupati e in grave sofferenza a causa del blocco delle attività, faticano a far sentire la loro voce. È questo il caso del comparto della cultura, che vive una crisi drammatica. Cosa fare per stabilire un più corretto equilibrio nella rappresentanza delle categorie e portare all’attenzione di tutti anche i problemi di questi settori? E cosa fare, nello specifico, per ridare fiato alle attività culturali?

Siamo sinceri. Sappiamo tutti che, per alcuni comparti della cultura, la condizione è effettivamente di crisi, ma la si deve a circostanze che vanno ben al di là del Coronavirus. Penso in particolare alla condizione del libro e al parziale sradicamento di cui le nuove tecnologie minacciano i suoi tradizionali moduli di produzione e di distribuzione. Ma siccome la cultura è costituita dalle persone che se ne occupano, che la fanno, io dico che oggi, proprio oggi, tocca a loro usare il loro fiato per ridare fiato alle attività culturali. Nessuna occasione è migliore di questa. Lo è nel breve periodo per le settimane di clausura che stiamo vivendo, nel corso delle quali la cultura può offrire mille modi non banali di passare il tempo; e in fondo lo sta facendo, per merito dei non pochi che hanno scoperto e fanno scoprire la fruizione di cultura, dal concerto, al museo, al teatro, alla stessa lettura, per via informatica o televisiva. E lo è nel medio e nel lungo periodo, per esplorare il futuro che abbiamo davanti, che tutti percepiamo diverso dal passato, ma di cui al momento vediamo più i rischi che le opportunità. Come costruire un mondo migliore, come far crescere la solidarietà rispetto all’egoismo (senza che la solidarietà nasca dallo stesso egoismo, come troppo spesso sta accadendo in questi giorni), come proteggerci dagli eventi estremi, estremi nel clima e estremi nella salute, con i quali già siamo alle prese, come organizzare per farlo democrazie funzionanti invece di cadere nell’autoritarismo? Insomma, chi, se non la cultura, deve rispondere a queste domande, che sono senza risposta nell’animo di tutti? E quindi si muova la cultura, oggi, con la grande rete dei social, non può temere di restare senza voce. La usi, allora, la sua voce.

Tra gli strumenti ritenuti utili per combattere il diffondersi del contagio di Coronavirus grande spazio, soprattutto in vista della fase 2, viene dato agli strumenti digitali di tracciamento degli spostamenti. Quali implicazioni crede potranno avere per la tutela della privacy? Quali accorgimenti sarebbe utile prevedere per conciliare la tutela dei diritti individuali e quella della salute pubblica?

Non sono un grande esperto di queste cose. So che esistono accorgimenti che permettono il tracciamento, senza invasioni della privacy. Naturalmente in condizioni di fisiologica normalità. Ma, al di là di quello che si può temere da un regime autoritario o da servitori infedeli di un regime democratico, immagino che gli hackers possano infilarsi anche qui e che difficilmente la app di cui disporremo in Italia sarà a prova di hackers. Le tecnologie danno grandi benefici, ma portano con sé prezzi che sono inevitabili. Devo confessare che quando sento vibranti richieste di tutela della propria privacy da parte di chi passa l’intera giornata su Facebook rimango, a dir poco, perplesso.

Infine, in questo mese e mezzo di contagio abbiamo rilevato, attraverso lo strumento del portale Treccani, il grande desiderio delle persone di attingere a un sapere certificato e di comprendere i problemi attraverso il significato delle parole. Non sembra anche a lei che parole e i saperi stiano vivendo una fase di rivalutazione dopo anni di sottovalutazione?

La sottovalutazione, per la verità, è stata sempre relativa; relativa, in particolare, alla politica, che a un certo punto ha pensato di poterne fare a meno. L’importante era rappresentare e interpretare i sentimenti del popolo, in particolare degli esclusi e dei perdenti di sempre. Ma mentre questo accadeva, dal dentista, dal meccanico, dal violinista, dal chirurgo, dal pilota d’aereo e dal macchinista del treno si è continuato a pretendere che fossero dei professionisti competenti. Ecco, ora questa pretesa si è fatta largo anche per decisioni che pure sono affidate alla politica. È una cosa positiva, così com’è positivo, peraltro, che in questa occasione ci siamo accorti che, per la nostra vita, le persone addette alle pulizie sono non meno preziose di quelle addette alla terapia intensiva. Tante, false gerarchie cadono davanti a questa constatazione.

Immagine: Effetto Coronavirus, lunga coda per entrare in un supermercato, Torino (marzo 2020). Crediti: MikeDotta / Shutterstock.com

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