Riaffiora da un interstizio della mia biblioteca quel gioiello che è La prevalenza del cretino (Mondadori 1985), di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, maestri di una sublime sprezzatura da tempo caduta in disuso nell’Italia sguaiata dei comici-tribuni. Il libro (in realtà un’antologia dell’"Agenda di F&L", la rubrica fissa che la coppia teneva sulla Stampa dal lontano 1972), è uno spassoso inventario dei vizietti nazionali nella fase declinante della prima repubblica, con un protagonista trasversale e onnipresente: il cretino o “post-fesso” che si va imponendo in ogni ambito della vita associata, dalla politica alla tv alla scuola. Il 1985 è l’anno della legge Craxi in favore delle reti di Berlusconi e l’anno di Grillo a Sanremo. Tangentopoli e la discesa in campo non sono nemmeno all’orizzonte, anche se Giorgio Bocca già racconta di “seratine televisive” in casa del Cavaliere, con soubrette espressamente impacchettate per la delizia dei presenti.

Tra le tante incursioni politicamente scorrette del duo F&L mi ha colpito questa pagina dedicata al rito del tema di italiano alla maturità: “La verità è che i vari riformatori e sperimentatori, ministeriali o barboscamiciati, furono tutti vittime dello stesso inconscio pregiudizio, per il quale scrivere sarebbe una faccenda abbastanza semplice, in fondo affine al leggere e addirittura al parlare, sicché basta conoscere i meccanismi elementari della lingua e qualche centinaio di vocaboli per esprimere con garbata esattezza ciò che si ha nella testa.

Le altre arti non si prestano a simili illusioni, tengono brutalmente le distanze: tra il pubblico che affolla il concerto di Rostropovic o la mostra di Picasso, la percentuale di coloro che sanno tenere in mano archetto e pennello è minima; mentre i lettori di Manzoni, tutti senza eccezioni, sanno materialmente scrivere come lui, parola più, parola meno; e gliene viene la sensazione non certo, per carità, di essere Manzoni, ma insomma di zappettare anche loro ai margini di quel campo, di non essere esclusi da invalicabili abissi”.

Geniali, profetici F&L! Nel 1985 non esisteva Internet né Facebook, e il self-publishing era pura fantascienza. Per farsi pubblicare un libro bisognava sottoporsi a trafile defatiganti e a lunghe e per lo più vane anticamere. Ma la mitica coppia aveva previsto tutto quello che stiamo vivendo nell’era della scrittura di massa, della grafomania digitale: lo “zappettare” di milioni di dita sulle tastiere dei computer, la nube di narrazioni elettromagnetiche che incombe sulle nostre teste, l’esplosione di ego ipertrofici convinti di essere se non Manzoni (ormai passato di moda) almeno Camilleri, o più modestamente Fabio Volo. Ci lamentiamo del basso indice di lettura degli italiani, ma se misurassimo il tasso di scrittura, probabilmente, scopriremmo di veleggiare a quote record. Anche i blogger, anche i logorroici di Facebook sono figli del tema in classe. Scrivere sul Web è facile, una funzione naturale, istintiva come respirare. Si pattina con disinvoltura da una bacheca all’altra, ci si sfoga o si pontifica su qualsiasi argomento. “Todos caballeros”, anzi “todos especialistas”. La velenosa battuta di Karl Kraus “Non avere un pensiero e saperlo esprimere – è questo che fa di uno un giornalista”, oggi che tutti fanno i giornalisti si può estendere ben oltre il perimetro dell’ordine professionale. Con l’aggravante che spesso, oltre al pensiero, difetta pure la capacità di esprimersi. Capita allora di sentire dalla bocca di una direttrice di giornale che un accordo è stato “cementificato” e da quella di un deputato che il suo intervento sarà breve e “circonciso”.

E i guasti non si limitano alla grammatica italiana. La meravigliosa democrazia della rete annulla le distanze ma appiattisce i valori: online siamo tutti uguali, dal Pulitzer all’ultimo allievo della scuola Holden, e un dottorato a Harvard conta quanto un diploma triennale in scienze della comunicazione. Anzi la sa più lunga l’ignorante “razionale” che si è fatto un’idea su un certo tema guardando youtube o storify o qualche sito di controinformazione, perché non si è lasciato manipolare dal sapere ufficiale, al servizio delle multinazionali, e ha così potuto appurare senza ombra di dubbio che l’11 settembre gli ebrei delle due torri erano stati avvertiti in anticipo e che Stamina è una cura infallibile.

Del popolo della rete, volenti o nolenti, facciamo parte tutti, così come tutti guardiamo la tv e usiamo i mezzi pubblici. Ma c’è chi vive questa appartenenza come una casacca identitaria, una militanza, quasi una forma di superiorità morale. Il Retino è il prototipo dell’uomo nuovo, del cittadino cosciente che “condivide” con la comunità degli amici e dei follower ogni esperienza, ogni moto dell’animo, dallo sdegno per le stragi in Siria alle prodezze del suo labrador. Se Fruttero e Lucentini riscrivessero oggi il loro libro, forse cambierebbero il titolo: La prevalenza del Retino. Dopotutto, c’è solo una C di differenza.

Claudio Magris, che tra le tante doti non brilla per autoironia, sostiene di essere stato iscritto a Facebook a propria insaputa (ci sono ancora due pagine a suo nome), e paragona il social network a un “Partito Invisibile che vorrebbe far indossare a tutti la stessa camicia, come un tempo la camicia nera” (addirittura!) rivendicando il diritto alla “disabilità digitale”: “non so usare gli strumenti dell’universo digitale, le mie dita sono in tal senso atrofizzate come quelle di un esploratore polare assiderato”.

Non sarà certo il caso dell’amico Magris, ma dietro queste ostentazioni di analfabetismo informatico, dietro questa “digital illiteracy pride”, si maschera in genere la schifiltosità dell’intellettuale che tiene le distanze dalle masse, salvo poi delegare il disbrigo delle mail a qualche solerte segretaria. Niente di più sbagliato. Contro “la prevalenza del retino” non serve rinchiudersi nella torre d’avorio: bisogna sporcarsi le mani, scendere in rete con il proprio bagaglio culturale, per condividere le proprie piccole o grandi competenze. Il sito Treccani che state consultando è nato appunto con questo scopo.