La fine del destino: riflessioni su I destini generali di Guido Mazzoni (Roma, Laterza, 2015)

Poeta e critico letterario di sicuro valore (si ricordino qui solo la raccolta I mondi, 2010, e gli ampi saggi Sulla poesia moderna, 2005, e Teoria del romanzo, 2011), fautore di una critica totalizzante che sonda con acume i nessi tra letteratura, dinamiche socio-economiche e storia della cultura, Mazzoni dismette qui l’abito professorale per proporci un notevole saggio sulla vita contemporanea e sulla condizione psichica di gran parte della popolazione dell’Occidente tardocapitalistico. Dalla teoria della letteratura a una lucida riflessione sulla società contemporanea: Mazzoni sposta con agilità il proprio campo d’indagine, perché già pienamente avvertito delle molteplici ragioni “extraletterarie” che determinano la genesi e la dinamica dei generi indagati per mestiere. Il volume si compone di due parti: da una ricognizione teorica sulla “rivoluzione antropologica” che dal secondo dopoguerra ad oggi ha cambiato abitudini, mentalità, aspettative delle masse occidentali si passa a un personalissimo reportage, dichiaratamente ispirato alla fl__â__nerie benjaminiana, su Berlino, “città allegorica del XX secolo”, completamente trasformata nell’ultimo ventennio dalle dinamiche economiche e pubblicitarie del tardo capitalismo, secondo la logica schizofrenica dell’advertising e della società dello spettacolo.

L’umanità contemporanea descritta da Mazzoni facendo riferimento a una ricchissima messe di autori (da Pasolini a Lasch, da Lacan a Deleuze, dal quale ultimo egli prende però le distanze) è in fondo quella già prefigurata da Hegel, ad esempio in alcune celebri pagine dell’Estetica, o dall’ultimo Nietzsche: un’umanità di “superficie”, che naviga a vista, che esorcizza la paura della morte e la fine di ogni trascendenza con il culto del leisure time e della jouissance; un’umanità antitragica, contenta della relativa bolla di autonomia e di benessere concessa dal sistema, totalmente ripiegata sul privato e ormai disinteressata alla politica e alla storia: insomma, l’homo consumens di cui di recente ha parlato Bauman, cui si contrappone una moltitudine di diseredati, che producono i toys con cui questi eterni adolescenti si gingillano.

Condivido pienamente la posizione di Mazzoni e il suo scetticismo verso il presente e verso le chances utopiche del futuro (non a caso le conclusioni sono sotto il segno hegeliano del grande Kojève). Trovo giustissimo inoltre il rilievo sulla mancanza a oggi di un’autentica riflessione filosofica sul web, proprio quando, con Facebook e altri social networks, l’umanità realizza sua sponte l’ideale carcerario benthamiano del Panopticon. Ritengo tuttavia che di questa nuova umanità più di una traccia fosse già visibile, se non già nella seconda metà dell’800 (per quanto Baudelaire avvertisse con preoccupazione in Mon coeur mis à nu l’incipiente americanizzazione del vecchio continente), di certo nell’età _d’_entre deux guerres: seppure da prospettive diverse e di segno decisamente conservatore, intellettuali quali Spengler, Toynbee, T.S. Eliot, Valéry, Ortega y Gasset o Jünger seppero cogliere più di un aspetto inquietante della nuova società di massa. Adorno ebbe di certo un rapporto dialetticamente complesso con questa corrente improntata al pessimismo culturale, così come il conservatore Simmel nutrì le riflessioni di Walter Benjamin e di Ernst Bloch. Tutto questo per dire che, a mio parere, la rivoluzione antropologica degli anni ’60-’70 (con al suo centro il 1968), descritta in Italia da Bianciardi e da Pasolini o negli USA da un Lasch, non è che l’ultima tappa, certo radicale e ultimativa, di un processo più lungo e complesso, che ha portato, per così dire, nel passaggio dall’Arbeiter al consumatore, all’attraversamento di quel “meridiano zero” di cui ebbero a discorrere Heidegger e Jünger. L’ethos radicalmente individualistico delle masse, scisse dall’etica pubblica e da ogni responsabilità sostanziale, fu anche, seppur diversamente declinato, uno dei fattori cruciali del successo della costellazione fascista nell’Europa scossa dagli immani massacri della grande guerra, nel coesistere di indifferenza morale e di bisogno di appartenenza e riconoscimento. Inoltre, come ci ricorda Ulrich Beck, il terrore e l’angoscia generalizzati sono pur sempre – e specie dopo l’11 settembre – l’altra faccia del divertimento pop che sembrerebbe la cifra di questa umanità composta da hollow men, confinati nell’angusto circolo di produzione e consumo. Queste considerazioni non inficiano minimamente il valore del saggio di Mazzoni, il quale ha tra l’altro il merito di essere sostanzialmente il primo della mia generazione (con l’eccezione forse di qualche oscuro libello apocrifo) a esprimere in forme così nette e limpide un’inquietudine e un disagio profondi rispetto ai tempi cui ci è dato vivere, come testimoniato da queste parole in apertura di volume: “Chi è nato nella seconda metà degli anni Sessanta conserva una memoria infantile e adolescenziale di strutture etiche, politiche e psicologiche che oggi vacillano o che non esistono più. […] Conserva il ricordo di un modo di vivere, popolare o borghese, fondato sul sacrificio, sulla disciplina e sul dovere. […] Poi, durante l’adolescenza e la prima età adulta, si è ritrovato in mezzo a un cambiamento vertiginoso che, pur non avendo mai preso la forma di un conflitto palese, ha avuto lo stesso effetto delle guerre o delle rivoluzioni, essendo anche il risultato della guerra mondiale inesplosa che ha lacerato la seconda metà del XX secolo” (pp. 4-5). Un cambiamento determinato dal crollo dell’URSS, dalla crisi irreversibile delle sinistre, dal trionfo globale dell’Impero americano e dell’ideologia neoliberista.

Un’ultima considerazione merita il titolo: più che di destini generali parlerei forse di fine del destino, se per destino intendiamo il progetto di vita di ciascuno di noi, la traiettoria che risulta dall’incrocio tra la necessità imposta dai tempi e il valore personale, quale che esso sia, dell’individuo. Se viviamo, come pare, deprivati del futuro e confinati in una sorta di eterno presente fatto di attimi irrelati e virtualmente ripetibili non ha davvero più senso parlare di destino, se non in termini esclusivamente analogici e disforici, di memoria volontaria e autopunitiva. Ma, come dice Mazzoni, chi è nato nella seconda metà degli anni ’60 si trova come il principe di Salina, “a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi”.

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