Può una pratica di meditazione buddista acquisire dignità scientifica entrando a pieno titolo nella pratica psicoterapeutica? La mindfulness, o meditazione di consapevolezza, si riferisce a quel momento di presenza mentale in cui tutto ciò che accade dentro e fuori di sé viene visto come è realmente, senza dolore, paura o sofferenza. Con la meditazione di consapevolezza si disinnesca la condizione automatica e ancestrale di allarme: la presenza mentale permette di riconoscere il continuo flusso di sensazioni, pensieri, emozioni, immagini, senza identificarsi con essi (disidentificazione) e sentendosi quindi meno vincolati e più liberi nell’azione (deautomatizzazione). Sollecitando così un modo nuovo di relazionarsi con sé stessi e la propria esperienza.

La pratica deriva dalla meditazione vipassan_ā_, recepita e riadattata negli anni Settanta dal medico statunitense Jon Kabat-Zinn per la cura del dolore cronico, per poi essere esportata in altri contesti come quello del benessere organizzativo. Strategie meditative e soprattutto contemplative sono presenti da millenni nelle tradizioni religiose e spirituali orientali, e in parte anche occidentali. Negli ultimi trent’anni alcuni esperti delle scienze mediche e umane, praticanti di tradizioni buddiste e zen, hanno deciso di codificare in forma laica gli elementi di base di queste tradizioni di meditazione e di preghiera, includendoli nella definizione di mindfulness ed inserendoli in protocolli di cura. Hanno così destrutturato le pratiche in microabilità psicologiche, per poi presentarle all’interno di protocolli strutturati di più giorni, settimane o mesi. Sono così nati alcuni protocolli di mindfulness, come il Mindfulness-Base Stress Reduction di Kabat-Zinn e il Mindfulness-Based Cognitive Therapy; inoltre, alcuni approcci di terapia cognitiva inseriscono strategie fondate sulla mindfulness, come la Dialectical Behavior Therapy e l’Acceptance and Committment Therapy. Numerose ricerche hanno evidenziato le modificazioni della qualità dell’attenzione e della regolazione delle emozioni, documentate da indicatori soggettivi, comportamentali e neurobiologici come conseguenza dell’apprendimento della mindfulness.

Secondo la psicologa americana Kristin Neff, di fronte ad esperienze di sofferenza o fallimento personale si affrontano tre bivi: la gentilezza e la comprensione verso sé stessi o giudizio e critica dura verso di sé; la capacità di guardare alle proprie esperienze come parte dell’esperienza umana condivisa, o la loro percezione come separate e isolate; la capacità di gestire i propri pensieri e sentimenti dolorosi in uno stato di consapevolezza equilibrata o la completa identificazione con essi.

Concetti ripresi dallo psicoterapeuta Andrea Marino, coautore insieme a Emiliano Lambiase del testo Mindfulness. Raggiungere la consapevolezza di sé (ed. San Paolo, 2017): «esiste uno stretto legame tra la pratica mindfulness e la compassione: questa implica l’essere toccati dalla sofferenza e dal dolore altrui, lasciando che emergano sentimenti di gentilezza e desiderio di alleviare le loro sofferenze. La compassione è connessa all’offerta di comprensione non giudicante verso coloro che apparentemente sbagliano, affinché le loro azioni vengano considerate nel contesto della fallibilità umana condivisa. Allo stesso modo, l’autocompassione implica l’essere toccati dalla propria sofferenza, senza evitarla o cercando di allontanarsi da essa, ma desiderando di alleviare il proprio dolore e guarire sé stessi con gentilezza. L’autocompassione mindful è alle fondamenta della guarigione emotiva: essere consapevoli nel momento presente delle sensazioni di inadeguatezza o disperazione, gestire le difficoltà emotive con una comprensione amorevole, porta sollievo e benessere nella propria vita».