«Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io per me amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla»

(Eugenio Montale, Ossi di seppia, Torino, Piero Gobetti Editore, 1925)

Il 25 agosto 1977 veniva proiettato a Roma, nella Basilica di Massenzio, nell’ambito di una rassegna dedicata al cinema epico, il film Senso di Luchino Visconti, seguito poi dalla saga del Pianeta delle scimmie: prendeva così il via uno degli esperimenti più interessanti – e anch’esso per molti versi epico – della politica culturale della capitale, l’Estate romana, inventata da Renato Nicolini, assessore alla Cultura nelle giunte di sinistra a guida comunista di Argan (1976-79), Petroselli (fino al 1981) e Vetere (fino al 1985): organizzare eventi culturali importanti e innovativi in una stagione considerata “morta” per quel genere di attività, perché gli intellettuali di professione solevano casomai radunarsi per l’estate in luoghi più decentrati come Spoleto, restando nella metropoli soltanto i ceti svantaggiati.

L’idea era allora molto ardita e rivoluzionaria e non esistevano esperienze simili in nessuna altra metropoli europea: in una città in cui ampi strati di popolazione erano costretti in quartieri periferici e tenuti programmaticamente a distanza, in un periodo storico molto conflittuale dal punto di vista sociale e politico (era l’epoca del terrorismo e in quel solo anno si contarono centinaia di attentati), in un contesto culturale ove ancora “alto” e “basso” non si mischiavano e distante era la cultura istituzionale da quella nascente che si potrebbe definire underground, in una fase insomma dominata da molte divisioni e da violenza, Nicolini pensò di poter ricomporre i conflitti in modo ludico, tessendo incontri e creando contaminazioni culturali, antropologiche, intergenerazionali.

Invece che far prevalere la logica della paura, e cedere al rischio concreto di una militarizzazione della società, come egli stesso disse, si volle proporre un’estensione del diritto di cittadinanza, dicendo a ogni romano – per usare le sue semplici parole – «la città è tua, la puoi vivere in modo divertente, piacevole, non devi testimoniare nulla, non devi essere impegnato»: ne sei comunque di diritto cittadino.

Come è noto, si ebbe già dalla prima edizione un successo strepitoso, e negli otto anni successivi l’idea fu progressivamente estesa (ed esportata come modello in altre città italiane ed europee), portando ogni estate migliaia di persone, provenienti da tutti i quartieri, ad appropriarsi dei meravigliosi spazi della città, anche fuori dalle mura, alcuni dei quali erano stati per molti anni chiusi al pubblico, come il vecchio Mattatoio di Testaccio o Villa Torlonia.

Nel 1979 prese vita un’iniziativa ancor più coraggiosa, il Festival dei poeti, organizzato insieme all’associazione Beat72 (come per Massenzio erano stati coinvolti i cineclub, nella prospettiva di far emergere e mettere in comune le vitalità già esistenti), che si tenne per tre giorni consecutivi a Castel Porziano, la lunga spiaggia libera dei romani, dove vennero invitati – con spirito quasi “woodstockiano” – più di cento letterati da tutto il mondo, tra i quali ospiti di punta erano Allen Ginsberg, Gregory Corso, William Burroughs e altri della beat generation. L’evento fu caotico e non si svolse in modo pacifico: Dario Bellezza litigò con il pubblico che non lo applaudiva, Dacia Maraini riuscì a proferire solo un verso tra i fischi e poi rinunciò tra gli applausi, e molti giovani vollero essi stessi salire sul palco e recitare versi – a un certo punto vi apparve persino un’enorme pentola di minestra –, tanto che infine il palco collassò sulla sabbia. In risposta ai molti attacchi che gli furono rivolti in Consiglio comunale, Nicolini citò, con buona dose d’ironia, i versi di Montale contro i «poeti laureati», i poeti vati che cercano allori, preferendo a essi i ragazzi che «agguantano qualche sparuta anguilla», per ribadire il suo concetto non elitario e verticale di cultura – sì, anche la poesia può essere fischiata, e, sì, anche coloro che abitano periferie e borgate possono farlo – e rivendicando la sensatezza di quell’esperienza.

Le polemiche sulla politica culturale di Nicolini non si placarono, e nel 1981 si aprì un dibattitto, soprattutto da parte socialista, che contrapponeva il suo “effimero” – quelle iniziative immateriali che non lasciavano nulla se non un ricordo nella memoria dei partecipanti, secondo i detrattori – e il “permanente”: gli interventi strutturali di cui la città aveva bisogno (e che in verità, proprio quelle giunte avevano avviato con importanti risultati). Dopo la fine del suo assessorato, l’Estate romana venne dunque alquanto ridimensionata e, rispetto alle idealità che avevano animato quelle giunte, assai snaturata.

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