S’avanza uno strano mostro multicefalo chiamato “italian sounding”. Come tutte le creature intelligenti, tende a migliorarsi con il tempo, ad acquisire conoscenza e consapevolezza: apprende, copia, impara quindi ancora di più e raffina la propria imitazione, fino a renderla credibile… Fino a superare l’originale?

La minaccia è duplice, presente e futura. Quella attuale, che anzi è ben chiara da anni, è rappresentata dall’italian sounding (letteralmente “che suona italiano”) un po’ cialtrone, per non dire straccione. In Italia si gusta lo straordinario Parmigiano reggiano? In Argentina qualcuno allora produce Regianito o Parmesano, in Brasile il Parmesão, in Cina il Parmeson, negli Stati Uniti il Parmesan… Così è anche per praticamente tutte le nostre eccellenze agroalimentari, con danni ingentissimi (quasi 60 miliardi di euro l’anno, secondo la Coldiretti. Ossia oltre il doppio rispetto al nostro export agroalimentare). Pura scopiazzatura malfatta. Spiega la Direzione generale lotta alla contraffazione dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi: “L’italian sounding è l’utilizzo di denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocano l’Italia per promozionare e commercializzare prodotti affatto riconducibili al nostro Paese. Esso rappresenta la forma più eclatante di concorrenza sleale e truffa nei confronti dei consumatori”. Va a braccetto con l'italian laundering, marchi nostrani famosi acquisiti da nuovi proprietari foresti e, spesso, svuotati di qualità.

I due fenomeni consentono di raccontare storie anche divertenti: come quella di un bravo norcino, il signor Parma, che negli anni ’30 dovette lasciare l’Italia fascista e approdò negli Usa, ove si mise a produrre il suo Prosciutto Parma, marchio che venne poi acquisito da una multinazionale canadese. Denominazione regolarissima. Certo, italian sounding: ma si può parlare di agropirateria, come a volte si fa? Improbabile. E la soluzione può essere quella di aumentare a livello internazionale la tutela delle indicazioni geografiche (Doc, Docg, Igp…), proprio mentre i nostri disciplinari che regolano le stesse tendono a essere via via sbrecciati ogni giorno di più per allargare le aree di produzione e la produzione tout court, a vantaggio dell’export ma a danno della qualità? Come scriveva tempo fa Antonio Neri su Alimenta, «l’agropirateria ce la siamo inventata a coprire le pudende di una ipocrisia ormai denudata. Se non vogliamo che (il consumatore, ndr) prediliga quel che si proclama italiano e invece italiano non è, non rimane che difendere la qualità. Il che significa rispetto della tradizione cioè, secondo il principio comunitario, produrre nel rispetto dei “metodi locali leali e costanti”. Vogliamo finalmente renderci conto che il made in Italy non basta più?».

Mentre il mondo evolve, noi rimaniamo immobili a rimirare il nostro straordinario patrimonio, che è in effetti pazzesco: la biodiversità della Penisola non ha eguali, siamo seduti su un inestimabile tesoretto. Ma la Storia tende a non premiare chi vive di rendita. Si fa strada infatti sempre più una nuova tendenza, quella che potremmo definire “italian sounding d’autore”, o perlomeno di qualità. Ne sono i principali alfieri alcuni chef italiani (o italomani) all’estero. Raccontava Lidia Bastianich, madre di Joe e regina di una catena di ristoranti tricolori negli Stati Uniti: «I prodotti (nostrani, ndr) sono la cosa essenziale per ricreare i veri sapori italiani!». Forse è ancora vero, ma il trend è un altro.

Luca Fantin, 35enne trevigiano, è dal 2009 chef del Bulgari di Tokyo; è stato scelto come “miglior cuoco dell’anno” dalla guida Identità Golose 2015 (che premia gli under 40). Propone cucina italiana, di alta qualità, ma con prodotti nipponici: «All’inizio facevo arrivare dall’Italia un sacco di ingredienti. Ora invece mi concentro sulle straordinarie materie prime nipponiche. Uniche eccezioni: riso Carnaroli, olio extravergine e Grana padano. Ho scoperto perfino ottimi porcini, sul monte Fuji». Ha provato anche a produrvi la mozzarella, ma con risultati mediocri.

Il siculo-norvegese Christian Puglisi, 31 anni, ci è invece riuscito. Ha tre locali a Copenhagen, ma prima è stato braccio destro di Rene Redzepi, ovvero del cuoco che col suo Noma, sempre nella capitale danese, è considerato da anni il faro dell’alta cucina mondiale: miglior chef per The World's 50 Best Restaurants, ossia la classifica di riferimento nel settore, per gli anni 2010, 2011, 2012 e 2014 (appuntamento a inizio giugno per il 2015; Massimo Bottura della modenese Osteria Francescana, attualmente numero 3, ci spera).

Puglisi ha da poco aperto un indirizzo in cui serve bontà italiane… Italiane? Racconta: «Dell’Italia non m’interessa tanto la cucina autoriale, quanto l’artigianalità, i prodotti della filiera agroalimentare: i salumi, i formaggi, la pasta. E’ a questo punto che mi sono imbattuto nella mozzarella. E mi son messo a studiare: è un formaggio presente in tutto il mondo, ma che dipende molto dalla materia prima con la quale è realizzato. C’è un abisso tra la buona mozzarella e l’altra, e molto dipende dalla freschezza. Ho pensato: se apprendo i migliori metodi di produzione e uso latte di qualità, posso produrre una pasta filata anche in Danimarca, dove dispongo di latte eccellente munto da non più di 24 ore. Quindi la scelta è stata non di importare il prodotto, che non può giungere con la qualità iniziale, ma lo studio, la ricerca, la tecnica. E di fare dunque un’ottima mozzarella “italiana” ma danese che rinunci a competere con quella campana, non sarà mai una “vera mozzarella”, ma una mia mozzarella, di qualità diversa perché esprimerà il territorio dalla quale nasce». Compie la stessa operazione con i salumi, produci in proprio prosciutti, addirittura la ‘nduia…

Altro continente, l’Africa. Lo chef milanese Giorgio Nava ha aperto sei locali di qualità a Cape Town. Uno si chiama Mozzarella Bar, il suo prodotto di punta sono ovviamente mozzarelle, burrate e quant’altro, e si rifornisce da Puglia Cheese, un’azienda locale (locale del Sudafrica, s’intende), fondata da Davide Ostuni, che impiega casari, tecnologie e sapienze che vengono dall’Italia. L’esito è ottimo. Non è tutto: «Nei miei ristoranti ho la fortuna di poter proporre la carne che deriva direttamente dal mio allevamento, situato a Karoo, a 700 chilometri circa di distanza dalla città. La zona è simile alla Sardegna, molta erba in primavera-autunno e poca in estate. Gli inverni sono rigidissimi e gli animali, allevati con metodo semibrado, devono camminare molto per nutrirsi», spiega. Ha importato dall’Italia la Chianina, ma non si è adattata all’ambiente. Ci ha riprovato con la razza Romagnola, incrociandola con razze indigene: esiti straordinari. Con quelle bestie rifornisce di bistecche il suo pluripremiato 95 Keerom, ristorante italiano d’alta gamma, nonché un altro locale chiamato semplicemente Carne. Ma in zona vengono anche prodotti un buon prosciutto cotto all'italiana, da Fabio Valsasina, e carciofi con bulbi che Giuseppe La Gattuta ha importato dall'Italia. Un mini-distretto agroalimentare tricolore e di qualità

Morale: la biodiversità italiana è unica, il patrimonio agroalimentare inimitabile. Ma non sediamoci sugli allori: un giorno potremmo scoprire che vengono dall’altra parte del mondo e sono pure più profumati dei nostri.