I diritti umani irruppero nel discorso pubblico della Chiesa cattolica quando l’esito della Seconda guerra mondiale era ancora incerto. A Stalingrado i sovietici avevano chiuso in una morsa le armate della Wehrmacht,  ma la macchina bellica tedesca continuava a lavorare a pieno ritmo, anche grazie al lavoro obbligatorio degli operai prelevati dai paesi occupati. Da qualche mese, a sessanta chilometri da Varsavia, era diventato operativo il campo di sterminio di Treblinka. Certo, gli americani erano in guerra da un anno, ma lo sbarco sulle coste italiane non sembrava all’ordine del giorno. In quaranta mesi di conflitto mondiale erano già morte milioni di persone.

Pio XII aveva qualcosa di nuovo da dire: attraverso Radio Vaticana, il 24 dicembre 1942, annunciò l’impegno della Chiesa a favore dei “fondamentali diritti della persona”. Nel suo nuovo libro, Christian Human Rights, Samuel Moyn, la voce più autorevole della storiografia sui diritti umani globali nel XX secolo, descrive l’invocazione pontificia degli “inobliabili diritti dell’uomo” come un punto di svolta critico, sia nella storia della Chiesa cattolica sia nello sviluppo del discorso dei diritti umani. Daniele Menozzi ha dimostrato in modo persuasivo che in quel messaggio Pacelli non stravolgeva gli orientamenti del magistero cattolico in tema di diritti naturali, affidando come sempre il compito della loro definizione e interpretazione all’istituzione ecclesiastica. Cionondimeno, afferma Moyn, Pio XII attuò un’operazione destinata a svilupparsi nel dopoguerra: il papa separava il linguaggio dei diritti umani dall’impianto secolare che ne aveva offerto, con les droits de l’homme, la Rivoluzione francese e lo metteva a disposizione degli Stati democratici europei e dei partiti di ispirazione cristiana che in quegli Stati avrebbero occupato una posizione di governo. Tale operazione – sostiene lo storico di Harvard – consentì alle forze politiche cattoliche di rielaborare l’agenda dei diritti umani per imporre vincoli morali ai singoli, sostenere strutture familiari conservatrici, preservare gerarchie sociali esistenti.

L’autore del celebre The Last Utopia (2010) non nega l’evidente paradosso: la Chiesa cattolica giunse a svolgere un ruolo essenziale nel definire la nuova idea di diritti umani negli anni Quaranta dopo essere stata profondamente invischiata nel crollo delle democrazie liberali appena uno o due decenni prima. Il cambio di passo dei vertici vaticani diventa meno paradossale dinanzi alla realtà degli equilibri del dopoguerra, quando, soprattutto in Europa, si delinea una contrapposizione tra forze politiche conservatrici da un lato, e partiti di ispirazione socialista e comunista dall’altro. La sostanziale impermeabilità dei comunisti al linguaggio dei diritti umani, percepito come una minaccia liberale tesa a rafforzare l’opposizione nei Paesi dell’Est, la priorità da essi assegnata ai diritti economici e sociali favorirono – sostiene Moyn – la piena acquisizione di quell’agenda da parte dei partiti democratico cristiani.

Forse è proprio in questo quadro – si ipotizza provocatoriamente nel capitolo conclusivo – che andrebbero compresi i distinguo operati dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, che in tema di libertà religiosa hanno riconosciuto la liceità dell’esposizione dei crocefissi nelle scuole statali italiane e la legittimità del bando del governo francese sul niqab nei luoghi pubblici.

Samuel Moyn, Christian Human Rights, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2015, 264 pp.