«Pochi giorni ai 50 Best!» e il mondo dell’alta ristorazione va in completa fibrillazione. I foodblogger sono nervosi, i critici enogastronomici più accigliati del solito, i giornalisti del comparto vanno, invano, alla ricerca d’indiscrezioni attendibili. Gli chef, poi, quelli… Non dormono la notte! Ci sono racconti buffi che girano per le redazioni, pardon i ristoranti, passando da una posata all’altra: il tal cuoco che tenta di far asse col talaltro personaggio, credendolo in grado di spostare pacchetti di voti su di lui, ma quanto si sbagliava! Oppure il noto fornello illustre che negli ultimi mesi è stato ovunque nel mondo, per raccattar consensi, meno che nel posto dove sarebbe logico trovarlo: nelle sue cucine.

Il punto è che 50 best è una creatura pressoché sconosciuta, al di fuori della cerchia, ma potentissima nel suo interno. Chi non è adepto dell’alta cucina, ne troverà eco flebile nelle pagine interne dei quotidiani nei prossimi giorni, perché l’attesa cerimonia è fissata per lunedì prossimo, primo giugno. Ecco, 50 Best è un evento, che si tiene annualmente a Londra; 50 Best è la classifica mondiale dei ristoranti.

Ora, esiste un campionato mondiale di calcio perché esiste un organismo, la Fifa, che raggruppa tutte le federazioni (o quasi. Ricordo anni fa una serie di incontri non ufficiali tra nazionali padana, tibetana, curda e della Cornovaglia: come mischiare tragedia e farsa). Ma qual è l’organismo deputato a stilare una classifica mondiale di ristoranti?

La faccenda è controversa. O meglio, è semplicissima: tale organismo non esiste. Diventa controversa proprio a partire da questa considerazione: perché in assenza di parametri validi, qualcuno ha deciso di deciderli in proprio.

In realtà, raccontano, tutto è nato per gioco. Anno 2002: alla rivista inglese Restaurant si scopre un buco in pagina. Come riempirlo? I redattori inventano lì per lì uno stratagemma: ognuno stila una classifica dei propri indirizzi del cuore, in tutto il mondo, e ne esce un elenco complessivo. Qualcuno di loro intuisce però le potenzialità dell’estemporaneo divertissement: perché non interpellare i maggiori esperti di gastronomia del globo? Perché non estendere la consultazione? In fondo, basta una mail o poco più. Costi ridottissimi.

La resa è clamorosa. In assenza di altre iniziative, la The World's 50 Best Restaurants “spacca”, come si direbbe con linguaggio giovanilista. Una classifica mondiale dei ristoranti è notiziabilissima, così attira interesse e sponsor di peso, nello specifico Nestlé, attraverso il marchio S. Pellegrino, che abbinerà a lungo il suo nome all’iniziativa, per poi distaccarsene un poco per evitare l’accusa di voler “inquinare” l’elenco con pressioni interessate.

Il punto è, poi, che quelli di Restaurant stanno a Londra, mica a Parigi o Roma. Ossia vedono l’alta cucina più con gli occhiali dell’innovazione che con quelli della tradizione – a casa loro dovrebbero accontentarsi di fish&chips e pudding… Non è un caso che il gioco nato per caso, e che oggi muove tanti tanti soldi, abbia premiato sei volti locali spagnoli (cinque il catalano El Bulli di Ferran Adrià, dominatore della prima edizione e poi altre quattro volte, dal 2006 al 2009). E poi, nell’ordine: per due turni il French Laundry californiano, nel 2005 il Fat Duck di Heston Blumenthal, fuori Londra, per poi virare decisamente nel 2010 verso la Danimarca (sembra incredibile, vero?) coronando miglior ristorante del mondo la New Nordic Cuisine di Rene Redzepi al Noma di Copenhagen, dal 2010 a oggi, con la sola eccezione del 2013, quando gli allori finirono di nuovo di Catalogna, ma a El Celler de Can Roca di Girona, dai tre Roca brothers.

E la Francia? E l’Italia? I cugini transalpini sono sempre stati penalizzati fortemente, loro hanno già la guida Michelin di supporto e solo a quella badano. La “Rossa”, come viene chiamata nell’ambiente, è spesso un po’ polverosa, registra i cambiamenti con un certo ritardo, viene accusata di premiare eccessivamente stucchi, velluti e tovagliato, trascurando il talento e la scommessa per il futuro, benché oggi sia meno vero che nel passato. Rimane la guida più autorevole, conosciuta e dunque presa in considerazione dal turista gourmet, tanto che – si dice – essere nelle sue grazie significa aumentare il fatturato di un 30% secco.

Però la Michelin, presente solo in alcuni Paesi, non ha mai voluto (potuto?) assumere una dimensione globale; così 50 Best le ha scippato almeno questa primazia, applicando diversi parametri.

Appunto i parametri sono il maggior oggetto di contesa. La 50 Best oggi è il risultato delle votazioni di quasi un migliaio di esperti selezionati in tutto il mondo. Chiaro che la composizione di questo panel risulti decisiva nel determinare l’esito finale. Di più: le regole della votazione prevedono che il globo sia diviso in numerose aree, e in ciascuna di esse i votanti possano esprimere preferenze che vanno a premiare in una certa percentuale gli indirizzi della stessa area, in parte minore quelli delle altre parti.

Così giocare sulle geometrie globali dell’alta ristorazione, accrescere il numero di votanti qui o suddividere le aree là, consente di orientare indirettamente l’esito del sondaggio. Una sorta di gerrymandering dei fornelli. Non c’è truffa né falsificazione: solo un’operazione di marketing planetario volta a estendere sempre più i confini di un business, quello dell’haute cuisine, anche in aree impensabili fino a qualche tempo fa, come Sudamerica o Asia.

Così nel 2014 tra i primi 50 ristoranti figuravano solo tre francesi e altrettanti italiani (ma col nostro Massimo Bottura dell’Osteria Francescana di Modena al numero 3, mentre il primo transalpino arrancava otto posizioni più indietro). Per contro, c’erano due thailandesi, altrettanti peruviani e ben sei spagnoli.

Esiti, insomma, discutibili. Ma importanti, perché in grado di orientare le tendenze della tavola contemporanea. La vulgata vuole che lunedì si voglia porre termine al predominio iberico e nordeuropeo, premiando forse Bottura o più probabilmente alfieri di nuovi lidi, come lo statunitense Daniel Humm, dell’Eleven Madison Park di New York. Staremo a vedere.

Di certo 50 Best è oggi saldamente un punto di riferimento per un sistema mondiale che prevede il continuo allargamento delle aree coinvolte, anche attraverso il moltiplicarsi dei congressi di alta gastronomia: un professionista del settore è spesso in viaggio, dall’Ucraina alla Corea, dal Messico all’Australia.

Spiega dunque Paolo Marchi, ideatore e curatore del più importante appuntamento italiano, Identità Golose: «50 Best funziona perché è nata bene, costa poco, è divertente e fa crescere il fatturato di chi si ritrova nell’elenco. Poi ci sono i limiti: a concorrere al premio Oscar sono ogni anno film diversi; qui invece ci si ritrova perlopiù con gli stessi indirizzi, la classifica risulta statica, così perde un po’ di appeal».

Il timore dunque è: operazioni di marketing e alleanze trasversali potrebbero non essere affatto malviste, in fondo renderebbero il gioco solo più appassionante e ricco di colpi di scena.