Per una curiosa coincidenza un giornale ha messo in vendita come allegato il Mein Kampf di Adolf Hitler solo pochi giorni dopo che il Senato aveva approvato una legge, votata da tutti i principali partiti di maggioranza e di opposizione, volta a inasprire le pene per il reato d’istigazione all’odio razziale. È stata così introdotta nel codice penale un’aggravante per chi affermi in pubblico la «negazione della Shoah ovvero dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra». Fra questi due avvenimenti vi è un interessante nesso che concerne gli atteggiamenti che questi fatti hanno prodotto nell’opinione pubblica. Mentre, infatti, la diffusione del Mein Kampf ha riscosso un’ampia quanto comprensibile ripulsa morale, l’approvazione quasi unanime della nuova norma di legge ha incontrato il plauso pressoché generale dei mezzi di comunicazione. Tutto bene, dunque? Non proprio. Circa la legge contro i “negazionismi” i media si sono limitati a riportare alcune voci favorevoli e altre contrarie, senza dar spazio alla contrarietà delle associazioni scientifiche degli studiosi di storia, che avevano sin dall’inizio messo in guardia come l’idea stessa di punire la negazione di uno o più crimini contro l’umanità rappresenti un passo gravido di conseguenze. Si afferma in pratica la possibilità di una verità storica “ufficiale”, affidata non al libero e serio dibattito scientifico, ma al giudice e, in ultima istanza, al potere politico. Ciò significa che, da oggi in poi, qualunque maggioranza parlamentare (e non, come è giusto, gli studiosi scientificamente accreditati) potrà legiferare sul passato “dicibile”.
D’altro canto le critiche, più che legittime, alla messa in vendita di Mein Kampf apparse sui giornali e nei social network hanno espresso due giudizi diversi (l’operazione è inopportuna; è un libro che non deve essere pubblicato), ma concordi nella motivazione: è l’opera di un criminale, primo responsabile della Shoah, e bisogna evitare che il popolo italiano, così culturalmente debole, possa esserne influenzato. Qualcuno ha evocato l’immagine di una bomba messa in mano a un bambino. L’idea del popolo fanciullo e bisognoso di tutela appartiene a una visione illiberale e censoria della società, di evidente matrice controriformista. Nel Cinquecento, secolo di durissimi conflitti religiosi e politici, si credeva che il veleno delle opinioni contenute nei libri protestanti sarebbe stato in grado di “contagiare” attraverso la lettura i fedeli e di trasformarli in eretici. Di qui la proibizione e la censura persino di quegli autori che, sebbene cattolici, riportavano passi di autori protestanti al fine di confutarli, con l’argomento che finivano per farsi veicolo involontario della diffusione di idee sovversive.
È facile oggi ravvisare negli atteggiamenti di intellettuali e politici il rimpianto forse inconscio del sovrano illuminato - naturalmente da loro - tutore del volgo ignorante. In questo modo però essi alimentano la confusione fra giudizio etico e politico e giudizio storico e una sottile aura censoria, da esercitare naturalmente per il bene dei sudditi-cittadini a rischio di “contagio” dottrinario. Ciò nell’illusione ideologica, purtroppo assai diffusa, che i libri, anche i più sconci e offensivi per la nostra sensibilità, siano di per sé causa del male. Si diventa insomma nazisti perché si legge il Mein Kampf quando invece è forse vero il contrario. Senza poi contare che la propaganda più o meno apertamente filonazista, fascistoide e xenofoba circola in dosi massicce nei meandri di internet, nei linguaggi intrisi di violenza dei videogiochi e negli ammiccamenti e sparate di politici e giornalisti in cerca di audience. Un certo compiacimento è ravvisabile persino nell’uso di frasi, vere o presunte, attribuite a Hitler per tacciare l’Unione Europea e la Banca Centrale Europea di “euro-nazismo”.
Tanto lo scandalo per la diffusione del Mein Kampf, quanto il plauso per la recente norma che colpisce i “negazionisti” dello sterminio degli ebrei e degli altri crimini contro l’umanità hanno in comune un elemento: la deriva antiscientifica del dibattito politico e culturale in una materia, l’uso pubblico della storia, che richiederebbe ragionamento e ponderazione e non tifoserie da stadio. Né, dal punto di vista della ricerca storica, è possibile invocare un’eccezione per il libro di Hitler che, come ha scritto con un’immagine poeticamente evocativa Wlodek Goldkorn, «non è un libro, anche se sembra esserlo, perché è stato scritto per dar vita a un programma politico il cui scopo era la distruzione di tutti i libri e di tutto il sapere». Secondo questa logica dovremmo non pubblicare (e forse non leggere o proibire?) una gran quantità di testi contenenti programmi politici ripugnanti, a cominciare da quelli di Stalin e Mao, dato che i loro autori sono senza dubbio colpevoli di crimini contro l’umanità. Forse invece bene farebbe il Ministero per i Beni culturali a promuovere la traduzione dell’edizione critica tedesca del volume hitleriano, che lo contesta punto per punto togliendo ogni alibi a nazisti presenti e futuri, posto che costoro leggano libri.
È chiaro che la costante sovrapposizione fra giudizio etico e politico (in questo caso la condanna del nazismo e dei suoi crimini) e giudizio storico e critico (l’analisi di come, perché e in quale contesto il nazismo abbia operato) costituisce il vero gravissimo problema culturale che accomuna l’Italia a tutte le democrazie occidentali: effetto sia della progressiva emarginazione dell’insegnamento della storia e dell’oscuramento dell’educazione civica nelle scuole e nelle università, sia della trasformazione profonda che negli ultimi decenni ha accompagnato la cultura di massa. La conoscenza del passato, basata sulla lettura di libri di storia, appare sempre più distante dalla realtà della vita collettiva, dove invece scorre un presente senza passato e senza futuro in cui la conoscenza degli snodi fondamentali delle vicende storiche finisce per divenire solo percezione, o al massimo memoria personale, familiare e di gruppo. Ma tale forma di “costruzione” del passato, funzionale alle più diverse scelte identitarie (nazionali, religiose, ideologiche, sessuali, e ormai anche di “consumo”) tende sempre più ad annichilire la funzione necessariamente critica della storiografia. Che, dal canto suo, stenta a svolgere una rinnovata funzione di critica nei riguardi dei potenti, sempre desiderosi di (ri)scrivere la storia, lasciando magari i cittadini a cullarsi nell’illusione dei meccanismi di auto-informazione forniti da internet nel segno di una conoscenza da fast food.
La storia come esercizio critico lascia così il posto alle emozioni che narrazioni romanzate, fiction televisive, racconti giornalistici e persino videogiochi sono in grado di destare nel pubblico. Dove quindi non conta più l’analisi critica dei documenti, delle diverse fonti e delle interpretazioni della storiografia, ma solo la trama emotiva delle affabulazioni e della comunicazione, in grado di condizionare a tal punto il dibattito pubblico da lasciar larvatamente riemergere volontà censorie inaccettabili in una società che voglia essere democratica.