Non ci sono più le stagioni di una volta, si può pensosamente affermare, scrutando ispirati il cielo. Ma anche gli chef sono molto cambiati. Già il nome “chef”, se non è un’innovazione, poco ci manca. La parola “cuoco” è diventata quasi desueta, un modo sgarbato di definire il professionista dei fornelli, un po’ come dare del cieco a un non vendente o del pirla a un non pensante. Il tutto, con gran scorno di Gualtiero Marchesi. Lo chef oggi è, o meglio può essere, personaggio televisivo, trend setter, maître à penser, testimonial, star, persino sciamano. A volerla buttare in risata, si direbbe che cucini nei ritagli di tempo. In realtà le menti più brillanti e impegnate della categoria stanno modellando un ruolo tutt’altro che marginale allo chef contemporaneo, e a quello del futuro.
All’ultima Identità Milano, ossia il maggiore congresso italiano di cucina e uno dei più autorevoli del mondo, Massimo Bottura ha così esplicitato la trasformazione del proprio lavoro, teorizzandola, ma sostanzialmente mostrandone già un’applicazione pratica: «Un cuoco non pensa solo alla cucina, ma anche a quello che lo circonda». E ancora: «La nostra attenzione in cucina guarda a come le idee prendono forma… ispirate dalla cultura e motivate ora più che mai da scelte sociali».
Se un decennio abbondante fa le parole d’ordine sembravano essere “tecnica”, “scienza”, “innovazione” e se in seguito un certo riflusso ha portato alla valorizzazione di concetti come “territorio” e “stagionalità”, oggi i termini di riferimento sembrano di nuovo cambiati: “sostenibilità”, “responsabilità sociale”, “nutrizione”. Facendo mente locale, ci sembra che il primo ad aver interpretato il ruolo sotto queste nuove vesti sia stato il peruviano Gastón Acurio, chef “politico” per eccellenza che, da noi intervistato qualche mese fa, rispose a una domanda su un sempre bisbigliato, possibile suo impegno in tale ambito: «Io ho un lavoro bellissimo, fare il politico è invece bruttissimo, perché dovrei cambiare? Voglio influenzare la politica, questo sì». Quella intervista venne titolata “Così voglio cambiare il mondo”, sintesi efficace dell’attività di un cuoco che non si limita certo a cucinare, ma rivendica la forza sociale di questo atto, perché «il cibo è l’arma di pace più potente che ci sia». Lui la brandisce con efficacia, anche Mario Vargas Llosa gliel’ha riconosciuto. Catturato dal sogno dello chef-condottiero che ha cambiato la sua terra e promette di cambiare un po’ anche la nostra, il Nobel per la letteratura 2010 gli ha reso omaggio: «Viviamo in un Paese con tanti limiti e difetti. Ma tra le mani di Acurio, la nostra cucina diventa una delle più ricche del mondo. Nessuno ha fatto così tanto per il Perù».
Non si ragiona, evidentemente, (solo) di piatti e ricette. Lo chef spiega: «Il Perù è un Paese multiculturale, che ha trovato nel cibo il proprio punto di unione, la bandiera identitaria. Ci siamo messi in testa di far sapere quanto sobbolliva da sempre nelle nostre case, ma sembrava non avere alcuna dignità. Ci siamo ribellati alla contraddizione di un Paese ricchissimo, ma con tantissimi poveri. E poi non abbiamo voluto accettare l’idea che nella nostra cucina non ci fosse nulla di buono. Abbiamo messo insieme cuochi raffinati e quelli di strada. Noi anche prima d’ora avevamo professionisti molto bravi, che venivano surclassati da quelli europei perché erano abituati a seguirne i dettami».
La cucina, insomma, è identità e anche riscatto sociale: «Abbiamo 2 milioni di coltivatori che sono sempre stati senza rappresentanza e che invece noi ora appoggiamo. Per questo abbiamo voluto creare un movimento che li vedesse alleati con gli chef. (…) Erano sottorappresentati, poveri, però custodivano un patrimonio enorme: continuavano a produrre tanti alimenti che poi non avevano alcuno sbocco sui mercati, venivano usati nelle cucine delle loro case, erano la base della loro - e nostra - cultura». Per far avvicinare cuochi e coltivatori, nove anni fa Acurio ha creato Mistura, portando i farmers in città, a Lima. Oggi l’evento è il punto d’incontro di migliaia di loro, tutti molto fieri di far parte di una comunità solidale: «Ricordo le parole di un contadino, che applaudivamo come miglior produttore di quinoa, una pianta che prima nessuno voleva comprare: “Aspettavo questo premio da 400 anni”. Vogliamo dare voce a persone come lui».
Sulla scia del peruviano, tutto il Sudamerica si è mosso nella stessa direzione: Carlos García porta avanti a Caracas una battaglia che è gastronomica ma anche sociale a difesa del cacao criollo, feticcio venezuelano che lui tutela creando reti di produttori ben remunerati, che gli garantiscano un’altissima qualità. E così a Lima anche Virgilio Martínez e Diego Muñoz, ancor prima Alex Atala in Brasile, e poi Helena Rizzo e Rodrigo Oliveira a São Paulo, Germán Martitegui in Argentina, Kamilla Seidler in Bolivia, Alejandro Morales in Uruguay, Juan Manuel Barrientos in Colombia, Rodolfo Guzmàn a Santiago del Cile, Enrique Olvera a Città del Messico e così via.
È la declinazione consapevole e “politica” di un patto sociale che si è creato naturalmente anche in Europa: grandi ristoranti che diventano punto di riferimento economico per un’intera comunità. È successo da tempo soprattutto là dove l’alta cucina si è imposta prima che da noi come valore identitario e bene nazionale. Raccontava a Expo Andrea Ribaldone, stellato ad Alessandria, durante un dialogo con Joe Bastianich: «In Francia i “tre stelle” godono dell’appoggio e delle sovvenzioni statali, perché danno lustro al Paese, sono un investimento sulla sua immagine, un patrimonio culturale da tutelare e valorizzare. Da noi questo non avviene quasi mai. Penso a George Blanc, sta in un posto sperduto, Vonnas, vi ha creato una sorta di “borgo gastronomico”, dà lavoro a tutto il circondario. Da noi, quando gli Alciati sono andati via da Costigliole, nessuno ha fatto una piega». Roanne, nel dipartimento della Loira, è un po’ più grossa di Vonnas: ma stringe a sé il mito culinario che vi abita dal 1930, la Maison Troisgros. E trema anche solo all’idea che l’anno prossimo l’insegna traslochi a 10 km dall’attuale sede, in aperta campagna ma soprattutto nel confinante Comune di Ouches.
Anche in Italia si sta comunque affermando poco a poco la figura dello chef come “baluardo del territorio e delle sue produzioni”, e va poi citata la battaglia di Slow Food in questo senso, nel segno del trinomio “buono, pulito e giusto”. Gianfranco Pascucci è diventato il difensore e il testimonial dell’oasi Wwf di Macchiagrande a Fiumicino, due passi da Roma, dall’aeroporto e da tanto cemento. È una zona bellissima, un tassello di foresta e dune dove lo chef - che ha il ristorante pochi km più in là, sul porticciolo della cittadina laziale - trova erbe, radici, alghe necessarie per i suoi piatti; preserva insomma un ecosistema ambientale rendendolo funzionale (anche) a un’attività commerciale, come può essere quella ristorativa. Sta organizzando una rete di allevatori, coltivatori e pescatori che operino in simbiosi con l’oasi stessa. «Qui ci sono dune che digradano verso le onde. Sono ricche di vegetazione. E allora mi sono chiesto: che sapore ha una duna? Come posso trasferire questi aromi nel piatto?». Ha iniziato a usare in cucina il cakile maritima, il finocchio marino… Piante che stavano scomparendo e che ora vengono preservate, “con la scusa” della loro utilizzabilità in cucina. Così un cuoco difende l’ambiente e crea ricchezza condivisa.
Brilla poi un altro tipo di impegno sociale, come quello del quale si è fatto alfiere e portavoce Massimo Bottura. Proprio qualche giorno fa, a Sydney, lo chef modenese ha presentato «con le butterfly in the stomach», le farfalle nello stomaco, Food for Soul (www.foodforsoul.it), organizzazione non-profit fondata per combattere lo spreco alimentare. È il prosieguo naturale del Refettorio Ambrosiano di Milano, che durante Expo ha chiamato a raccolta i migliori chef di tutto il mondo per cucinare ogni giorno nella struttura della Caritas per i più poveri, con gli “avanzi” della kermesse meneghina. Food for Soul collaborerà presto con la mensa dell’Antoniano di Bologna, con l’obiettivo di accogliere più ospiti, tra cui le famiglie di rifugiati della zona. Subito dopo, l’associazione punta a volare oltreoceano: la città di Rio de Janeiro ha infatti donato uno spazio per creare il Refettorio Rio. Se dovesse riuscire a raccogliere i fondi e i partner necessari, questo progetto aprirà in agosto durante i prossimi Giochi Olimpici. Oltre a funzionare come mensa per poveri, la struttura ospiterà corsi sullo spreco alimentare, lezioni di cucina e tirocini pratici rivolti ai giovani delle favelas, così da aiutarli nel sostentamento d’intere famiglie. Bottura: «Noi chef non siamo solo la somma delle nostre ricette. Cooking is a call to act, la cucina è una chiamata all’azione». E ancora: «Food for Soul è la risposta per tutti coloro che ci chiedono di aprire un Refettorio. Ne stiamo aprendo uno a Modena, Bologna, Torino, persino a Palermo. Abbiamo bisogno di posti che uniscano le persone a tavola. Che ridiano vita a quartieri in difficoltà. Che offrano ristoro alle anime e ai corpi».
È un modo di pensare nuovo, nell’alta cucina. Oggi non c’è quasi più un cuoco di livello che butti via la testa o il carapace di un gambero, o la buccia della patata, o la pelle del pollo: li utilizza friggendoli, facendone un brodo, o in mille altri modi diversi. Il tutto, in nome di un impegno che incrocia la responsabilità sociale alla sostenibilità ambientale e alimentare. In Italia è nato anche un congresso dedicato alla cucina sostenibile, Care’s, che ha tenuto la propria prima edizione a gennaio in Val Badia. Lì si è fatto notare l’intervento di Rafa Costa e Silva, del Lasai di Rio de Janeiro. Per lui parlare oggi di sostenibilità non può significare riduttivamente l’autoproduzione di ortaggi e frutta, ma tocca molti altri punti: 1) la conservazione dei cibi; 2) l’utilizzo di scarti e rifiuti; 3) il rapporto col territorio; 4) l’autoproduzione dell’energia necessaria al ristorante, attraverso impianti solari o eolici. «Su questi temi, siamo ancora molto impreparati» (ce n’è anche un quinto, che riguarda gli stili alimentari e la nutrizione, chiama in causa una cucina sana, magari con prospettive vegetariane e vegane, che a loro volta vanno a braccetto con la questione della sostenibilità. Ma di questi aspetti parleremo un’altra volta, ndr).
A Care’s c’era anche Davide Scabin: «Incoraggiare le produzioni locali è il presente. Ma il futuro è un altro, si rintraccia nei punti citati da Rafa. La gente mi chiede se ho un orto, al Combal. Nessuno che mi domandi se ho un’auto elettrica, una cucina geotermica o un impianto eolico. Eppure sono gli interrogativi che vanno posti, d’ora in poi. Ergo, siamo molto in ritardo. L’antropocene è il periodo di tempo in cui l’uomo ha vissuto sulla Terra: sono tre minuti o poco più, se poniamo che la storia del pianeta siano 24 ore. Bene: di quei tre minuti, il Secondo Dopoguerra sono pochi attimi. Eppure sono bastati a distruggere tantissimo, a inquinare in modo scellerato. È colpa della generazione che ci ha preceduto. È stata mia mamma a massacrare il mondo!».
Al di là dell’aspetto paradossale, queste parole indicano una rinnovata coscienza dello chef, che coglie nel suo quotidiano rapporto coi fornitori di materie prime la questione della sostenibilità, la fa propria e se ne fa portavoce. Il sudtirolese Norbert Niederkofler di Care’s è stato l’ideatore: «Se penso all'approccio che deve avere oggi un cuoco, penso a come sia necessario per noi che facciamo questo lavoro con passione e consapevolezza metterci in secondo piano, sapendo ascoltare e rispettare i problemi dei piccoli produttori. (…) Per ognuno di noi è fondamentale riuscire a trovare un equilibrio. Innanzitutto con noi stessi, e poi con la natura. Solo quando saremo riusciti a trovarlo potremo continuare il percorso, la nostra crescita, e attraverso la cultura e l’esperienza poter pensare a veri piatti sostenibili».
Qualche giorno fa Msc Pesca Sostenibile, sede italiana di Marine Stewardship Council, un'organizzazione internazionale no-profit nata per tutelare il futuro dei mari attraverso il proprio programma di certificazione, ha festeggiato il suo primo anno in Italia. Ha definito degli standard credibili e riconosciuti per la pesca sostenibile e la tracciabilità dei prodotti, e oggi è il programma di etichettatura più importante al mondo in questo comparto. Non solo pescherecci, aziende di pesca e grandi distributori, ma anche un'attività ristorativa può richiedere di diventare parte della Catena di Custodia Msc per permettere al consumatore finale di essere certo che il pesce che ha scelto è stato pescato con coscienza per il presente e anche per il futuro di quella specie e della salute del mare stesso. Il primo ristorante italiano a ottenere il “bollino” è stato Al Porticciolo 84 di Lecco, chef Fabrizio Ferrari: «Sento la responsabilità di dover agire da apripista nel mondo della ristorazione italiana per aiutare Msc a crescere e di conseguenza permettere ai clienti che si siedono alle nostre tavole di fare scelte con un nuovo orizzonte di qualità ed etica. Senza dimenticare che i mari e gli oceani sono risorse preziose e le dobbiamo conservare così il più a lungo possibile; negli ultimi vent'anni sono stati maltrattati ma siamo ancora in tempo per cambiare rotta. Sono orgoglioso di fare la mia parte e di supportare Msc Pesca Sostenibile, e spero che tanti miei colleghi si uniranno a questo progetto... Magari tra altri vent'anni qualcuno sarà felice di potersi ancora gustare un pesce sano e selvaggio pescato in mare aperto. E quale è il nostro fine ultimo se non quello di fare felice qualcuno davanti a un piatto?».
Ferrari, Bottura, Pascucci, Niederkofler, per citare solo alcuni degli italiani, ma ce ne sono molti altri… Potrebbero tranquillamente concorrere al Basque Culinary World Prize, un premio di 100mila euro appena istituito dal Basque Culinary Center, un centro culinario di riferimento mondiale, col Governo Basco. È rivolto a dare riconoscimento ogni anno a un cuoco che si sia distinto per progetti di sviluppo e «sottolineare così, in modo speciale, come la gastronomia possa essere un motore del cambiamento - spiega il direttore, Joxe Mari Aizega -. Vogliamo far sì che quanti sono maggiormente impegnati in questo lavoro interagiscano tra di loro; che possano ispirare le nuove generazioni e mobilitare coloro che cercano di fare la differenza».
© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata