Metà della popolazione mondiale vive già in aree urbane e si prevede che 7 persone su 10 nel 2050 vivranno in un contesto urbano; l’espansione delle città avviene tuttavia principalmente nelle aree a basso e medio reddito, senza alcun criterio urbanistico e con un ritmo che va ben oltre la reale capacità delle autorità locali di dotarle di infrastrutture e servizi adeguati. Sviluppo dell’urbanizzazione significa dunque in molte zone del mondo semplicemente l’ampliamento indiscriminato di megalopoli con aree periferiche degradate sempre più ampie. E i bambini sono come sempre i più vulnerabili, quelli più esposti a malnutrizione, malattie e sfruttamento, quelli che più facilmente perdono la sfida per la sopravvivenza. A loro è dedicato il rapporto 2012 dell’Unicef sull’infanzia nel mondo dall’emblematico titolo Figli delle città.
Se in linea di principio vivere in un contesto urbano offre a un bambino migliori opportunità di accedere ai servizi primari rispetto a una realtà rurale di abbandono, la città può all’opposto esasperare le disparità e accentuare l’esclusione: il fatto che esista un ospedale o un acquedotto non significa che vi sia una reale possibilità di usufruirne. Inoltre le statistiche ufficiali non considerano che le periferie disagiate sono fatte di abusivismo, di persone non registrate e di lavori non regolari; di piccoli ‘invisibili’ che escono dal mondo prima ancora che ne sia stato sancito l’ingresso. Spesso infatti i bambini nati negli slum non hanno nemmeno un certificato di nascita, condizione che li espone più facilmente al lavoro forzato, ad abusi sessuali e ad essere merce di scambio nel traffico di minori.
I numeri, nella loro crudezza, lasciano pochi dubbi: 7,6 milioni di bambini morti ogni anno nel mondo prima di raggiungere l’età di 5 anni rappresentano un dato agghiacciante. E se rispetto a trent’anni fa il numero è quasi dimezzato, decisamente c’è ancora molto da fare.