Dicono si chiami «Sistema Lazio», e uno pensa subito a una tradizione antica. Fiorito nelle terre ciociare, tra Alatri e Anagni, le stesse che furono di Andreotti, di Ciarrapico e di Evangelisti, il cosiddetto «sistema laziale» affonda le sue radici nel clientelismo organizzato democristiano e nella fede bronzea di gente convinta che «il potere logora chi non ce l’ha» e che al momento giusto, se ne hai bisogno, arriverà qualcuno a ripeterti la frase miracolosamente caritatevole: «a fra’, che te serve?». Ora però il «sistema laziale» si è superato, subendo una vera e propria metamorfosi antropologica e dando luogo ad una depredazione spudorata della cosa pubblica, praticata senza limiti (e senza controlli). Con uno stile sfrontato che non ha precedenti, immortalato dalle foto oscene di un banchetto alla Trimalcione de’ Noantri, impersonato da gente che confonde i romani coi greci e forse i Proci con i porci, travestendosi, di conseguenza, da maiali.
Si chiama «sistema», dunque, e uno pensa ad un’associazione di malfattori: se non fosse che questi ultimi sono, a loro modo, più seri. Con tutta la pacchianeria del caso, gli eroi di Gomorra, i delinquenti di Casal di Principe , di San Cipriano d’Aversa e di Mondragone raccontati nel romanzo di Saviano, possiedono una loro tragica, emblematica eroicità, sia pure kitsch. Ebbene anch’essi, come Saviano ha narrato, si autodefiniscono facenti parte di un «sistema»: il sistema di Francesco Schiavone, noto come Sandokan, per dire, o quello dei Marino, i cui affilati erano chiamati gli «spagnoli», detti anche McKay perché il loro capo somigliava ad un personaggio di una serie televisiva western. Rifiutando il vecchio appellativo di camorristi, consegnato alla letteratura e al giornalismo e il cui uso è considerato segno evidente di pressappochismo e incompetenza, questi delinquenti si rifugiano in un modo di dire neutro e quasi sociologico ma insieme anche terribilmente personalizzato. Rivendicano la loro identità come appartenenti a un «sistema», a un’organizzazione clanica. Con un «sistema», infatti, si vive e con esso ci si identifica. Per esso infine, si può anche morire.
Niente di tutto questo nella «sprecopoli» laziale, dove «sistema» significa tutt’al più «così fan tutti e dunque lo faccio anch’io». E in questo senso il «sistema» laziale è solo una variante di un’attitudine più generale, non troppo diversa perciò dal «sistema» napoletano o dal «sistema» lombardo, ribattezzato anche «rito ambrosiano»: quest’ultimo, a ben vedere, di diverso mette in mostra solo uno stile più sommesso e raccolto, officiato com’è da un governatore celeste, i cui gesti paiono simboleggiare un’atarassia poco riuscita ma che cristianamente tutti abbraccia e tutti accoglie, dalla consigliera trash col labbrone al famigerato «trota». Sicché la verità l’ha detta finalmente la governatrice laziale Polverini, ma senza purtroppo trarne le dovute conseguenze: «Chiedo scusa, siamo noi l’antipolitica».
Che strana parola, dunque, «sistema». C’era un tempo in cui la teoria critica della società, quella di  Horkheimer, di Adorno e di Marcuse, faceva del «sistema» il concetto riassuntivo della realtà sociale capitalistica. Qualcosa da cambiare e addirittura da abbattere. Qualcosa che identificava una struttura economica, sociale, politica e culturale. Tutto un mondo. Oggi, con «sistema» si intende soprattutto un malaffare italico da finis austriae o da socialismo reale, una spartizione alla sovietica d’antan o alla cubana(immaginiamo non molto diversa quella cinese). Che strana parola, dunque, «sistema», termine da gioco d’azzardo, elaborazione matematicamente raffinata di quella che una volta era la mitica schedina Sisal del totocalcio: termine perciò intimamente salvifico, che molto promette anche quando nulla offre. Capita così perfino che chi di «sistema» ferisce di «sistema», alla fine, perisca.

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