C’era un volta, mezzo secolo fa, una rotonda sul mare: erano i primi anni Sessanta, quel tempo dondolante, swinging, non solo a Carnaby Street ma anche sulle spiagge italiane, in Versilia, a Santa Margherita e in Costiera: quando Gino Paoli  (1963) cantava «sapore di sale, sapore di mare, un gusto un po’ amaro di cose perdute, di cose lasciate lontano da noi». Era un’Italia fiduciosa quella di allora, fatta di giovani e di speranze, che poteva cullarsi nel mito della vacanza, dimenticando, almeno per un po’ la fabbrica «dove il mondo è diverso, diverso da qui». Superati i conflitti sociali degli anni Cinquanta e superato perfino il tentativo di riportare indietro l’orologio della storia, imbarcando al governo i neofascisti, l’Italia sperimentava allora una sua breve stagione riformista, una sorta di momento perfetto, nella memoria di coloro che lo ricordano, prima che il conflitto sociale, sul finire del decennio si riprendesse la scena: per coloro che erano giovani allora, infatti, quel periodo è divenuto, nel segno della nostalgia, il tempo magico della spensieratezza, e del rimpianto. Il tempo in cui l’ultima spiaggia era solo il lido più lontano dal paese, quello meno controllato dalle famiglie borghesi, o che si volevano tali: e che, per esserlo, stigmatizzavano pubblicamente i comportamenti eterodossi, specie femminili, del tipo di quelli della «scandalosa» Stefania Sandrelli.
Sono passati cinquant’anni e le nostre spiagge tra poco torneranno a essere «visitate» da barconi di immigranti clandestini che, forse anche per aver visto in televisione l’immagine di un’Italia felice o forse soltanto perché spinti dalla disperazione, tenteranno di nuovo, profittando della bella stagione, un salto nel buio. Verranno dalla Libia, ma forse anche dalla Tunisia e domani, se la primavera araba divenisse finalmente una primavera mediterranea (e non solo una primavera musulmana) anche dall’Algeria. Così l’ultima spiaggia sarà per loro la spiaggia in cui lasciano la vita di ieri e in cui si giocano il tutto per tutto sperando in un domani migliore. L’Europa, quella sorta di sogno-miraggio al di là dell’orizzonte, non sembra avere occhi per vederli e orecchi per sentirli, questi nuovi migranti del XXI secolo. L’Italia, poi, presa dalla sua patologia stolida di invecchiamento precoce e, insieme, di xenofobia (si sa che si può essere giovani e xenofobi o vecchi e accoglienti: essere vecchi e xenofobi è un po’ da fessi) non ha per loro neppure una mano da stringere; solo l’infamia dei CIE (centri di identificazione e di espulsione) che hanno sostituito i già poco civili CPT(centri di permanenza temporanea). Un mutamento di denominazione che segnala già per sé solo l’orientamento di un paese di giovani emigranti generosi e sognanti fattosi paese di vecchi avari e spaventati.
Nell’anziana Europa e ancor più nella decrepita Italia avremmo bisogno della giovane Africa, e dovremmo per questo darci da fare, impostando una politica per l’enorme continente che sta sull’altra sponda di quello che una volta ci piaceva chiamare mare nostrum. Avere una politica mediterranea significa anzitutto essere capaci di attrarre le classi dirigenti dei paesi vicini, per educarle, dialogare con loro, intessere relazioni. Costruire ponti lungimiranti fatti di dialogo culturale, di comprensione e di vicinanza e non solo di affari; ché poi con i primi, anche i secondi vengono meglio. Noi invece siamo solo capaci di respingere i turchi e di bacchettare i greci, altra nazione di antichi emigranti, ribadendo a questi ultimi che possono ben uscire dall’Euro. Non si capisce bene come: vogliono allestire un CIE anche per loro?.
In breve, siamo solo preoccupati di difenderci dagli unici che, a ben vedere, possono – a certe condizioni – salvarci. I barbari sono già in Campidoglio e in un mondo globale essi sono, più che la nostra sventura, una possibile fonte di speranza. Sicché anche noi, senza saperlo, ci ritroviamo all’ultima spiaggia, e non è il lido immaginato della nostra gioventù.

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