Riproponiamo qui l’intervista ad Avinash Ganesh, ristoratore indiano, che fu per lungo tempo l’intervento più letto tra quelli pubblicati sul nostro magazine. Si può capire perché: con toni lievi, Ganesh rievocava il percorso non facile e tutt’altro che scontato che lo portò nel nostro paese a ricostruirsi una vita. Ora Avinash Ganesh ci ha lasciato. Ci fa piacere ricordarlo ripubblicando queste righe.

_Quando e perché è arrivato in Italia? Pensava allora che ci sarebbe rimasto così a lungo?
_Sono arrivato in Italia nei primi anni ’90 dopo che in India un incidente mi aveva portato via mia moglie e una figlia. A spingermi a spostarmi fu un incontro. A Mumbai avevo conosciuto una poetessa e scrittrice anglo-italiana, Mary Archer, allora in India per preparare una antologia dei poeti indiani che scrivevano in inglese, e fu lei ad invitarmi a partire per l’Italia. Con me portai anche l’altra mia figlia Meghna. Oggi lei vive in Australia, dove lavora benissimo come manager, mentre Mary è poi diventata mia moglie.

_Quali erano i suoi progetti? Quanti ne ha realizzati davvero?
_Non avevo progetti e sono sempre vissuto nel presente. Volevo solo andare via dall’India dopo quello che mi era accaduto, e davvero non sapevo cosa avrei fatto in Italia. Avevo però lavorato come manager per la catena d’alberghi Sheraton ed ero impegnato al Taj Mahal di Mumbai come responsabile per la formazione del personale. Ad aiutarmi al trasferimento fu un importante uomo d’affari italiano che a Mumbai mi diede una mano per ottenere un visto d’ingresso di sei mesi per far curare mia figlia, che aveva entrambe le gambe rotte dopo l’incidente. Quell’uomo immaginò il mio possibile futuro e mi ammonì a non pensare di aprire un ristorante indiano in una città come Milano. Lui era milanese, appunto, e temeva che i suoi concittadini mai avrebbero accettato di mangiare cibi diversi dai loro. Mi offrì invece aiuto per aprire un ristorante italiano a Mumbai. Io ero stupito: perché io indiano dovevo cucinare italiano? E poi, come dicevo, volevo solo lasciare l’India per un po’, con mia figlia. Ottenuti i visti, partimmo. La valigia era piena di spezie, come facciamo noi indiani. Era febbraio. Milano era freddissima. Vedemmo per la prima volta la neve.

_Che difficoltà ha avuto?
_Difficoltà? Tutto è nato per caso, oppure perché doveva avvenire. Mary a Milano aveva tanti amici che conoscevano e amavano l’India. Mi chiese di organizzare una cena per loro. Io accettai, anche se non avevo mai cucinato nella mia vita. Avevo però vissuto in una grande famiglia con una nonna che aveva 16 fratelli e 2 sorelle che erano spesso a casa. Io aiutavo la nonna in cucina e intanto raccoglievo i segreti della sua arte. Si sarebbero rivelati utilissimi, ma allora non lo potevo immaginare. Intanto mi servirono per dar da mangiare a quegli amici, che mangiarono di tutto e di più. Furono loro a invitarmi ad aprire a Milano un ristorante indiano. Così trovi qualcosa da fare, mi dissero. Avevo tanti dubbi. Io cuoco? Potevo gestire un albergo, ma un ristorante no. E poi le mie tasche erano completamente vuote e neppure conoscevo l’italiano che imparavo piano piano arrangiandomi, con l’aiuto di mia moglie e leggendo le insegne dei negozi. Poi un altro incontro: mi fu presentata una donna che aveva un bar latteria vicino alla stazione centrale e mi fu proposto di aprire il ristorante proprio lì. Un corriere da Londra mi portò un carico di spezie comprato per me da mio suocero e ci lanciammo nell’impresa aspettando di vedere cosa accadeva. Organizzammo un test con una cinquantina di conoscenti della mia nuova socia. Io ero spaventato e chiesi dentro di me aiuto a mia nonna. Arrivò la gente, del genere milanese chic. Io avevo preparato, e ancora mi domando come abbia fatto, veg. pulao  (riso), dhal makhani  (lenticchie), aloo gobi  (patate e cavolo), kofta  (polpette), chapati  (pane) e un dolce di semolino. Allestito il buffet mi chiusi in cucina aspettando il verdetto con ansia. Dopo venti minuti arrivò l’amica e prese a baciarmi e ad abbracciarmi. Nel bar latteria era nato il primo ristorante indiano di Milano. Naturalmente non avevo ancora nessun documento che potesse consentirmi di lavorare in regola, ma tutto all’inizio era un po’ strano. In primo luogo il bar latteria restava tale durante il giorno, gestito dalla madre della socia, e io entravo solo alle 4 del pomeriggio a preparare le mie cose.

_Gli inizi saranno stati duri?
_Sì, ma non poi per molto. Per i primi tre giorni non vidi un cliente. Tutti i miei conoscenti mi dicevano che la cucina indiana era troppo piccante e che non ce la potevo fare. Poi due clienti donne. C’è da dire che per evitare controlli io vestivo con giacca e cravatta in modo da poter essere scambiato per un cliente. Le due donne mangiarono, poi chiesero di parlare con il cuoco e io appunto uscii con il mio abito temendo una trappola. Ma non era quello il caso: si trattava solo di due vere clienti contente, una delle quali giornalista, con cui ancora oggi conservo un rapporto d’amicizia. Meritai un articolo su la Repubblica. Tutto decollò poi rapidamente, con grandi soddisfazioni che mi hanno portato ad avere tra i clienti non poche celebrità e ad allestire, tanto per fare un solo esempio, ricevimenti per uno stilista del calibro di Giorgio Armani. Dopo il successo del ristorante mi occupai di un centro culturale indiano, “Sneh sadan”. Un'avventura magnifica per me, questa: per dieci anni organizzammo concerti con importanti artisti indiani, mostre, dibattiti. Poi decisi, qualche tempo fa, che era venuto il tempo per iniziare qualcosa di meno frenetico e più piccolo in questo magnifico angolo d’Oltrepo pavese.

_Pensa di tornare in India?
_Non so. Ho già detto forse che non ho mai fatto progetti e che le cose mi sono accadute attorno. Mi sembra che madre natura detti a ciascuno una strada e che quella vada seguita.

_Che cosa si sente oggi? Ha bisogno di un'identità particolare, si sente ancora indiano, in qualche modo indo-italiano o le basta la bandiera del cibo?
_A me piace sentirmi libero e cittadino della terra, che ovunque fossi mi ha regalato una opportunità e la possibilità di superare con serenità prove anche assai dure e dolorose.