“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. La pungente potenza irradiata dall’incipit di Cent’anni di solitudine si affloscerebbe in una Macondo contemporanea: sono passati 101 anni dalla vendita del primo frigorifero domestico creato dall'architetto Fred Wolf Jr e ci è già impossibile immaginarne un mondo privo, il sale come moneta sonante. Eppure il Domelre (_dom_estic _el_ectric _re_frigerator), già nel 1913 composto da un modulo del freddo sormontato da un contenitore del ghiaccio, non ebbe successo immediato a causa del costo elevato. La complessa dinamica tra gas freon e serpentina di raffreddamento era stata brevettata dall’americano John Gorrie nel 1851, e bisogna aspettare un quarto di secolo per il primo trasporto refrigerato, nel 1876, tre mesi di viaggio in piroscafo per un carico di carne argentina in Francia. Ma è degli anni ’60 il definitivo exploit, non generato da progressi tecnici (la rigenerazione del ciclo di freon è conquista antica, il sistema no frost recente) ma, come rammenta la sociologa Shelley Nickles, dalla nuova percezione sociale del frigidaire: un aiuto per le casalinghe senza servitù. Non avulsa dalle seduzioni del design: ante spaziose e facili da pulire, comparti più caldi per il burro o la frutta, i refrigeratori si fanno strada nelle case borghesi fino agli eccessi del consumismo - con l’Occidente nelle ambasce del modello culturale Supersize me - divenendo al contempo il magnete comunicativo della vita familiare.
In molti ne hanno tratto ispirazione: in poesia si fa metafora di quiete passionale, come nella non irresistibile raccolta Lettere d'amore nel frigo di Luciano Ligabue (“è uno come tanti / che ha le sue lettere d'amore nel frigo / e nello scomparto frutta / tiene la matrice dei biglietti / per lo spettacolo del per sempre”), o celebrazione neofuturista come in Damiano Laterza (“Le luci ultraviolette abbronzano / le verdure altrimenti apatiche / che il fruttarolo bengalese gay / spaccia, impunito, ai bordi del suburbio fascista. / Più in alto cubetti di ghiaccio si autoproducono / nell'indifferenza / dell'inverno glaciale artificiale perenne). E ha addirittura spinto Jacques Le Goff verso lo studio della storia, come rivelato in un’intervista: «Negli Anni Trenta vivevo a Tolone con i miei genitori. Mi accorsi che per le strade si vedevano sempre più automobili e nelle case sempre più telefoni e frigoriferi. Noi eravamo una famiglia della piccola borghesia, mio padre era professore d’inglese, e non avevamo né automobile né telefono né frigorifero. C’era la ghiacciaia, e sento ancora il venditore ambulante di ghiaccio urlare per strada: "La glace! La glace!". E allora mi facevano scendere per comprarlo. Ma questo non è importante. L’importante, per me, è stato capire molto presto che l’avvento del frigorifero e la scomparsa della ghiacciaia era un avvenimento storico, perché cambiava la vita quotidiana, la vita delle persone, molto più delle guerre e dei Re. Per me, la storia è sempre stata storia sociale». Le Goff come Aureliano Buendía: perché in fondo trasformare l’energia elettrica in freddo è materia da realismo magico.