Allora poso, da una parte della tavola del mio gabinetto, tutti gl'incartamenti dell'imputato e getto i dadi per lui dandogli la precedenza della sorte [...]. Ciò fatto poso gl'incartamenti del querelante [...], dall'altra parte della tavola. E parimenti getto di nuovo i dadi.

Così il celebre giudice Brigliacoda, personaggio dell’opera Gargantua e Pantagruele di Rabelais, decide le sorti del processo, lasciando sia la casualità del lancio dei dadi a decretare il verdetto. Questo però, solo dopo aver «ben veduto, riveduto, letto, riletto, ripassato e sfogliato le querele, citazioni, comparizioni, ommissioni, informazioni, pregiudiziali [...] come deve fare il buon giudice».

Se tutti i giudici operino alla maniera di Brigliacoda è la vexata quaestio in materia di giudizio nel processo civile; ovvero, se il giudice, dopo aver attentamente studiato gli atti processuali, non riuscendo a pervenire a un giudizio di verità intorno ai fatti oggetto del processo, specialmente nelle cause connotate da maggior complessità, decida “a naso”, tirando i dadi. L’analisi deve partire dal presupposto che la verità non è l’ovvio fine che persegue qualsiasi sistema processuale e che la realizzazione dello stesso, se ammessa come possibile, dipende in larga parte dalla meccanica del processo e in particolare dalla disciplina delle prove e del potere decisorio del giudice.

Invero, nel sistema processuale italiano vige il principio per cui il giudice decide iuxta alligata et probata, per cui sono le parti a disporre dell’oggetto del processo, determinando su quali fatti verterà la causa e con quali prove intendono dimostrarli. Il giudice deve quindi pronunciarsi esclusivamente in ordine a quanto allegato da attore e convenuto e sulla base delle prove da questi proposte. Da tale principio, detto dispositivo, molti traggono l’argomento per cui il processo sarebbe una cosa privata delle parti, essendo ciascuna padrona della personale ricostruzione dei fatti da offrire al giudice, il quale si troverebbe a scegliere tra due narrazioni alternative, della cui veridicità si deve necessariamente dubitare. Michele Taruffo, nella sua monografia La semplice verità, afferma:

non ha senso ipotizzare a priori che una delle due versioni proposta dalle parti corrisponda alla verità: entrambe le versioni potrebbero essere false.

Ciascuna parte ha ovviamente interesse a costruire una narrazione dei fatti quanto più incline ad ottenere un esito favorevole del processo, distorcendo, se necessario, la verità a proprio vantaggio; il giudice sceglierà quindi quella che gli apparirà più coerente. Tuttavia, la coerenza narrativa è ben diversa dalla verità, perché, come osserva Taruffo, vi possono essere narrazioni perfettamente coerenti, come nei romanzi, che non sono veritiere, bensì manifestamente false. Se il sistema fosse congegnato come mero scontro di due visioni contrapposte, come nel cosiddetto modello adversary, sarebbe, sempre secondo Taruffo, «strutturalmente inidoneo», e anzi «controindicato, per la ricerca della verità».

Diversa è la posizione di Piero Calamandrei esposta nel saggio Il giudice e lo storico: il fatto che il giudice sia obbligato al rispetto del principio dispositivo sarebbe infatti garanzia della sua imparzialità, rispetto invece alla figura dello storico, il quale nello scegliere il tema della sua ricerca esprime già una preferenza e nel formulare il problema manifesta un implicito «criterio della soluzione». Ancora, Calamandrei ricorda come il vecchio processo penale inquisitorio, cumulando nella stessa persona il compito delle indagini e quello del giudizio, attribuiva due funzioni «psicologicamente incompatibili» al giudice, il quale si sentiva impegnato, più che a «rendere giustizia all’imputato, a giustificare (proprio come lo storico a dimostrare la sua tesi) la fondatezza della imputazione».

In ogni caso, il nostro sistema, pur ispirandosi al modello adversary, è caratterizzato dall’adesione a un principio dispositivo attenuato per via della rilevante eccezione costituita dai più o meno ampi poteri di iniziativa istruttoria del giudice, a seconda del rito applicabile. Vale a dire che il giudice può, ad esempio, disporre d’ufficio l’interrogatorio non formale delle parti, ordinare l’ispezione di persone e cose oppure, nel processo del lavoro, disporre l'ammissibilità di ogni mezzo di prova in qualsiasi momento. Questa importante eccezione al principio dispositivo sembra poter consentire all’ago della bussola della narrazione processuale di girare più liberamente, al fine di conoscere diversi gradi di verità della ricostruzione dei fatti, svincolandosi dalla limitazione di dover unicamente indicare i poli opposti di quanto affermato da parte e controparte, cosa che avverrebbe invece in un puro sistema adversary.

Per questo motivo, molti studiosi, tra cui Taruffo, ravvisano una diretta proporzionalità tra l’incremento dei poteri istruttori del giudice e la veridicità della decisione giudiziale. Di segno contrario però, è l’opinione di Cavallone che, nell’articolo In difesa della Veriphobia di risposta alla citata monografia di Taruffo, lungi dal voler negare al giudice tali poteri, osserva come la netta contrapposizione tra il principio dispositivo e il principio inquisitorio sia spesso stata inutilmente esagerata: quest’ultimo principio, per Cavallone, deve intendersi in senso processuale e, a meno di non volerlo ammettere in senso sostanziale (rinunciando a un processo di parti), comporta che il giudizio sia in ogni caso limitato dall’oggetto del giudizio così come individuato dalle parti e dal basilare divieto di scienza privata del giudice. Senza infine togliere rilievo alla regola per cui le prove disposte ex officio devono riferirsi esclusivamente a fatti che sono previamente entrati nel processo tramite le allegazioni di parte, il giudice non può perciò verificare l’esistenza di elementi diversi, anche sospettandone l’incidenza ai fini del giudizio.

In generale, sembra avere senso parlare di una funzione epistemica del processo, come un «insieme strutturato di attività finalizzate a conseguire conoscenze veritiere dei fatti rilevanti per la decisione della controversia» (Taruffo). Tuttavia, questa visione collide con l’altro fondamentale principio in tema di prove del processo civile, quello dell’onere probatorio. Premettendo che al giudice è fatto divieto di non liquet, essendo egli tenuto ad accogliere o rigettare la domanda di tutela giurisdizionale, questo principio garantisce all’organo decidente di adempiere al suo dovere decisorio qualora la scelta tra le due alternative risulti particolarmente difficoltosa, nel caso in cui ad esempio entrambe le parti siano sprovviste di prove o in cui queste appaiano manifestamente contraddittorie. Il principio dell’onere della prova, oltre a stabilire notoriamente che colui che afferma un fatto è onerato della dimostrazione dello stesso, determina una regola di giudizio per cui l’assenza di prove a favore dell’attore comporta il rigetto della domanda.

Ciò potrebbe comportare in ipotesi che sia negata l’esistenza di un diritto di credito per l’incapacità dell’attore di raccogliere prove, pur in assenza di controprove sull’inesistenza di tale diritto. Perciò verrebbe stabilito con sentenza che un attore X non vanti un diritto di credito nei confronti di Y, seppure né X né Y siano stati in grado di dimostrare la veridicità delle proprie affermazioni. Quella sentenza, una volta passata in giudicato, diverrebbe incontrovertibile e nessun giudice potrebbe più accertare il contrario, nemmeno se l’attore avesse in seguito modo di procurarsi una prova che il suo diritto di credito effettivamente sia esistito. Cavallone correttamente definisce questa regola come «anti epistemica per eccellenza», non avendo manifestamente come obiettivo la conoscenza della verità ed essendo piuttosto finalizzata a sollevare il giudice dall’impasse decisionale.

Molto discusso in dottrina è il principio di non contestazione, che impone al giudice di porre a fondamento della decisione, oltre alle prove proposte dalle parti, anche i fatti non specificamente contestati dalle stesse. È stato osservato da Taruffo come la non contestazione di un fatto non possa considerarsi attributiva della qualificazione di veritiero e come lo «status epistemico» dell’enunciato fattuale rimanga comunque nell’incertezza. In proposito Antonio Carratta ha offerto un’interpretazione della norma nel senso di considerare la non contestazione non come prova positiva del fatto, bensì come relevatio ab onere probandi, implicando quindi la non necessarietà della dimostrazione della veridicità del fatto e piuttosto potendo questa essere smentita nel corso del processo.

La verità processuale può, alla luce di quanto detto finora, essere distinta dalla realtà fattuale. Tuttavia, scomodando prevedibilmente Kant, ciò che conosciamo attraverso i nostri sensi è sempre differente dall’oggetto in sé della conoscenza e una verità assoluta non è mai raggiungibile in toto. Dunque, pare un inutile sforzo quello di voler distinguere a tutti i costi la verità processuale dalla verità storica, a meno di non voler utilizzare tale distinzione come sollecito ad un’impostazione finalistica del processo verso il valore della verità. Al riguardo, è ancora Taruffo a ritenere che tale impostazione finalistica sia necessaria nel nostro sistema di diritto. Il principio di legalità e l’articolo 24 della Costituzione impongono infatti che la tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi sia subordinata all’accertamento dell’esistenza di una situazione giuridicamente qualificata tramite una decisione giudiziaria fondata sulla corretta applicazione della legge al caso concreto. Al fine di far valere una qualsiasi norma sui contratti, ad esempio, occorre verificare che la fattispecie concreta “X e Y hanno stipulato il contratto in data Z” abbia effettivamente avuto luogo. Dunque, l’accertamento della verità del fatto è condizione necessaria per l’applicazione della norma e quindi «la veridicità dell’accertamento dei fatti è requisito essenziale della legalità della decisione» (Taruffo). Anche in relazione all’articolo 111 della Costituzione e al principio del giusto processo, Taruffo osserva che non può considerarsi tale un processo in cui, seppure siano state applicate correttamente tutte le norme processuali e sia stato garantito il rispetto di tutti i diritti spettanti alle parti, la decisione sia fondata su fatti sbagliati. Infatti, nessuno considererebbe giusta la sentenza che abbia ad accertare che il giorno Z due soggetti non abbiano stipulato un contratto se questo è stato realmente stipulato; questo anche se gli sia stata data la possibilità ad esempio, di difendersi, di essere assistiti da un avvocato e di produrre prove. Dunque, citando sempre Taruffo:

il processo è giusto se è sistematicamente orientato a far sì che si stabilisca la verità dei fatti rilevanti per la decisione.

La funzione di accertamento della verità del processo civile è difficilmente pacifica e difatti esso è visto come mero strumento di pacificazione sociale per risolvere le controversie tra due o più soggetti, in corrispondenza al divieto di farsi giustizia da sé. Oltre a ciò, lo stesso articolo 111 della Costituzione sul giusto processo stabilisce che la legge debba assicurare la ragionevole durata del processo e proprio a questo scopo sono diretti alcuni dei principi con carattere anti-epistemico sopra detti, quali il principio dell’onere probatorio o della non contestazione. Infatti, Cavallone, in risposta alle osservazioni esposte da Taruffo sulla verità e giustizia del processo, afferma:

accantonare la funzione del processo come strumento di risoluzione delle controversie significa estromettere l’idea del “rendere giustizia” dal contesto umano e sociale al quale appartiene - necessariamente limitato, imperfetto e pragmatico - per lasciare il giudice solo con se stesso, impegnato non si sa se nella risoluzione di un gioco enigmistico o nell’ascesa trascendentale verso il “sapere infinito”.

In conclusione, si può sospettare che la verità tra queste due opposte visioni, come spesso accade nei processi, sia nel mezzo. È sicuramente giusto un processo orientato alla conoscenza della verità, ma non si possono considerare ingiusti tutti i processi in cui questa non sia emersa a pieno, quando pure siano state applicate tutte le garanzie processuali, non potendosi in definitiva privare di considerazione la rimarchevole funzione di pacificazione sociale del processo.

Per saperne di più:

Cavallone, In difesa della Veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in Rivista di diritto processuale civile, 2010, 1 ss.

M. Taruffo, La semplice verità, Bari, Laterza, 2009; P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, in Studi sul processo civile, vol. V, Padova, Cedam, 1947.

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