La fattispecie criminosa dell’infanticidio, delineata all’articolo 578 del nostro codice penale, è ancor oggi al centro di importanti studi, pronunce giurisprudenziali, questioni medico-legali. Questo delitto, così come attualmente disciplinato, presenta fattezze diverse rispetto a quelle del suo predecessore, l’infanticidio cosiddetto “per causa d’onore”: in passato, infatti, il reato si configurava nei casi in cui l’infanticidio fosse commesso per difendere l’onore sessuale proprio o di un prossimo congiunto. L’abrogazione di quest’ultima fattispecie è avvenuta con la legge 442 del 1981, che ha novellato l’articolo 578 del codice penale e, insieme a recenti sentenze della Corte di Cassazione, ha provveduto a rendere il delitto di infanticidio meno anacronistico e a rideterminarne il nucleo di disvalore.

Il delitto si realizza con l’uccisione, da parte della madre, del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando ciò sia determinato da condizioni morali o materiali connesse al parto stesso. Si nota, quindi, che la sola madre può essere autrice del reato (da cui la collocazione dello stesso nella sfera della cosiddetta “delinquenza femminile”). Sulla base di questo, molti si interrogano, in una prospettiva de iure condendo, circa l’opportunità di mantenere in vita la fattispecie dell’infanticidio: viene, infatti, considerata come un mero privilegio sanzionatorio per la madre infanticida, dal momento che la condotta incriminata da tale delitto è equiparabile a quella dell’omicidio doloso comune (art. 575), ma con una pena di reclusione compresa tra i quattro e i dodici anni, invece che pari a minimo ventuno anni come previsto dall’art. 575. Al fine di poter riflettere sull’attualità della fattispecie, è bene soffermarsi sui vari aspetti della stessa e indagare la ratio che giustifica la sua presenza nel nostro ordinamento penale.

Diversamente dal passato, l’infanticidio oggi si configura solo qualora si possa dimostrare che il delitto è stato commesso dalla donna-madre in uno stato di profonda crisi che la legge definisce come una condizione di «abbandono morale e materiale». Non sono previsti particolari requisiti circa le modalità dell’azione: il reato si definisce, dunque, a forma libera, e può essere commesso anche mediante un comportamento omissivo.

Innanzitutto, occorre precisare che il requisito della immediatezza che si ricava dalla norma (« La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto… ») non deve essere inteso in senso assoluto, ma va contestualizzato: si ammette, generalmente, che il requisito permanga pure a distanza di un breve intervallo di tempo dal parto, necessario per il recupero della padronanza fisica e per la realizzazione emotiva e intellettiva della portata dell’evento. Inoltre, si ritiene, dall’interpretazione dei termini «cagionare la morte», che tale requisito sia riferito non all’uccisione immediata, bensì al fatto di porre in essere i mezzi idonei a uccidere entro questo breve intervallo.

L’elemento centrale della norma, costituito dallo stato di crisi e dalle condizioni fisiche e psichiche peculiari della donna che commette infanticidio, ha suscitato grande e rinnovato interesse, anche all’interno della giurisprudenza. Le condizioni di abbandono della donna al momento del parto e nei momenti immediatamente successivi ad esso vengono presi in considerazione in un duplice aspetto, l’uno ineludibilmente congiunto all’altro. L**’abbandono** dev’essere, da un lato, materiale, ovvero una solitudine di tipo fisico, intesa come l’assenza di concrete possibilità di assistenza durante lo svolgimento del parto. Dall’altro lato, assume rilievo l’abbandono morale, ossia la mancanza di incentivi e stimolazioni psicologiche idonee a far superare alla donna le difficoltà, morali, sociali, affettive o economiche, che derivano dalla nascita del figlio. Per lungo tempo, tale complesso elemento costitutivo è stato interpretato in chiave oggettiva, ovvero come stato di abbandono che deve risultare tale agli occhi di una persona esterna, oggettivamente assoluto.

Nel 2010 si è verificata un’inversione di tendenza giurisprudenziale, volta a una valorizzazione del dato soggettivo. La Cassazione penale, con sentenza 40993/2010 ha affermato che la condizione suddetta, pur rappresentando un dato concreto indiscutibile che deve sussistere,

«non deve rivestire carattere di oggettiva assolutezza, in quanto è sufficiente ad integrare la situazione tipica anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto».

Quest’orientamento trova conferma in una successiva pronuncia della Cassazione penale, la quale statuisce che la condizione di crisi e di abbandono morale e materiale della donna-madre, può senz’altro consistere in uno stato di «solitudine esistenziale» che può derivare anche dall’indifferenza dell’ambiente familiare e che le impedisce di cogliere le opportunità di aiuto dei presidi sanitari e di altre persone, «inducendola a partorire in uno stato di effettiva derelizione» (sent. 26663/2013).

Inoltre, occorre indicare talune questioni medico-legali sollevate da questa fattispecie criminosa. In primo luogo, affinché tale reato possa ritenersi integrato è necessario che vi sia stata, quale condizione pregiudiziale, la vita del feto o del neonato, successivamente interrotta per azione della madre. La prova del passaggio dalla vita intrauterina alla sopravvivenza autonoma è fornita da elementi che causano profonde modificazioni dell’organismo fetale, quali ad esempio la cessazione della circolazione per via placentare e l’inizio dell’autonoma, sostenuta dalla piccola e grande circolazione, l’avvio della respirazione polmonare e, ancora, la sostituzione della nutrizione per via placentare con quella per via gastroenterica.

L’indagine sull’avvenuto inizio della vita extrauterina, e dunque sulle trasformazioni suddette, viene svolta attraverso accertamenti denominati docimasie (dal greco dokimàzein, esaminare), le quali si dividono generalmente in respiratorie ed extra respiratorie. Queste ultime riguardano l’esame di vari apparati, come quello alimentare o vascolare (con osservazione dell’involuzione di talune strutture vasali determinata dal passaggio alla circolazione autonoma, quale l’obliterazione del dotto di Botallo), ma trattandosi spesso di fenomeni tardivi rispetto alla nascita, risultano meno utili ai fini della valutazione medico-legale in ambito giudiziario. Le docimasie respiratorie, invece, sono maggiormente utili per la diagnosi differenziale: la docimasia polmonare, ad esempio ottica o idrostatica, mira a dimostrare l’avvenuto inizio della vita attraverso un esame dell’aspetto dei polmoni o del contenuto aereo in essi eventualmente presente.

Tornando alla fattispecie, si è visto che abbandono morale e materiale, solitudine esistenziale, stato di crisi e di effettiva derelizione sono i tratti peculiari in presenza dei quali può parlarsi di infanticidio. Si tratta di una grande evoluzione rispetto al delitto “per causa d’onore” che si conosceva in passato, ma la fattispecie è probabilmente destinata a rinnovarsi ulteriormente, e forse, addirittura, ad estinguersi. Di fronte a quest’ultima eventualità, di cui molti sostengono la necessità, occorre senz’altro riflettere sulla seguente circostanza: l’abrogazione di tale reato sarebbe accompagnata da una totale perdita di riguardo per il peculiare stato di crisi e di turbamento fisico- psichico in cui versa la partoriente, che si ritiene attenui in maniera notevole la sua colpevolezza.

Per saperne di più:

  1. M. Ambrosetti , L’infanticidio e la legge penale, Padova, CEDAM, 1992

  2. Pedio , La soppressione del neonato per causa di onore, Milano, Giuffrè, 1954.

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