La dottrina del diritto naturale, o giusnaturalismo, sostiene l’esistenza di un diritto proprio dell’uomo, inalienabile, eterno ed immutabile: il diritto di natura.

Per diritto di natura si intende la libertà che ognuno ha di usare come vuole il proprio potere, le proprie capacità e abilità, per la conservazione della propria vita e conseguentemente di fare qualsiasi cosa che si ritenga necessaria per tale scopo. L’uomo può disporre per se stesso e agire per preservare la sua vita e perseguire i propri fini senza limitazioni di alcun tipo.

La filosofia giusnaturalista suppone che tale diritto naturale sia perfetto e immutabile.

Si contrappone al diritto naturale il diritto positivo, che nasce all’interno delle società umane e la cui garanzia ed effettività si fonda sull’autorità di uno Stato e su chiare norme giuridiche. La dottrina settecentesca considera tale diritto mutevole in ogni sua manifestazione, e quindi imperfetto.

Il diritto positivo è proprio di quelle società che si sono dotate di una struttura amministrativa, giuridica e politica articolata, e che hanno quindi abbandonato lo stato di natura.

Partendo da una diversa descrizione dello stato di natura, Thomas Hobbes e John Locke hanno indagato l’origine delle strutture politiche delle società, e hanno così posto le basi per la riflessione politologica moderna.

Prima di analizzare direttamente l’idea di Hobbes riguardo lo stato di natura, risulta opportuno sottolineare le due possibili interpretazioni che lo stesso autore offre nel definire cosa sia “lo stato di natura”. In senso universale lo stato di natura per Hobbes più che una realtà storica è una ipotesi molto solida fondata sulla analisi della natura umana, mentre uno stato di natura storicamente determinato è riscontrabile solo in alcuni casi particolari, in questo senso Bobbio ha osservato in Hobbes tre diverse realtà di stato di natura direttamente osservabili nella quotidianità:

a) realtà interstatale: il rapporto internazionale tra gli Stati che vivono reciprocamente in uno stato di natura;

b) realtà antistatale: lo stato in cui vengono a trovarsi gli individui durante la guerra civile;

c) realtà prestatale: alcune società primitive come gli indiani d’America.

Per Hobbes lo stato di natura è una realtà conflittuale, una situazione di guerra costante in cui la vita umana si rivela misera. Il processo logico, basato sul modello assiomatico della geometria, muove da una serie di assunti fondamentali ed indiscutibili e porta Hobbes ad affermare che la natura umana sia conflittuale dato che l’uomo è un essere desiderante: ogni uomo ha desideri differenti, ma tutti desiderano, e ciò li porta inevitabilmente a competere dato che la natura è dotata di risorse scarse.

Hobbes ricorda altresì che gli uomini tessono relazioni solo per motivi egoistici, non per naturale socievolezza, «Ogni associazione spontanea di gente – afferma Hobbes – nasce dal bisogno reciproco o dal desiderio di soddisfare la propria ambizione… ogni patto sociale si contrae o per utilità o per ambizione, cioè per amor proprio e non già per amore dei consoci».

I fini egoistici e la naturale uguaglianza degli uomini portano, inevitabilmente, al conflitto.

In tale competizione non può verificarsi una vittoria netta e duratura di un individuo (o di un gruppo di individui). Infatti, in ogni momento, tutti potrebbero subire una sconfitta o un tradimento. Altra caratteristica fondamentale dello stato di natura è dunque la totale assenza di garanzie.

Gli uomini sono tendenzialmente uguali, dotati della stessa forza e della stessa arguzia; e anche se esistono delle differenze naturali tra i singoli, esse non sono tali da consentire il dominio completo e durevole di un individuo su un altro. Hobbes destituisce apertamente di ogni fondamento l’idea che esistano delle differenze biologiche tra gli uomini e le donne, che siano tali da giustificare la pretesa di superiorità naturale del sesso maschile. Dunque, gli esseri umani sono tutti dotati tendenzialmente della stessa forza e delle stesse possibilità.

In un così complesso e instabile contesto, si inserisce il diritto di natura come Ius Omnium in Omnia, come il diritto ad ogni cosa: ogni uomo possiede per natura il diritto a tutto ciò che egli necessiti per mantenersi vivo: la vita è il sommo bene da proteggere ad ogni costo dato che senza essa non è possibile godere di nessun altro bene esistente.

Questa condizione giustifica il concetto espresso dalla locuzione latina Homo Homini Lupus: l’uomo è portato a competere e lottare contro i suoi simili, non per attitudine né per malvagità, ma poiché gli è necessario per mantenersi vivo, che è obiettivo fondamentale per tutti gli uomini ed ovvia condizione imprescindibile per godere di altri beni**.**

Queste premesse ci permettono di comprendere la complessità delle relazioni interpersonali immaginate da Hobbes. Nello stato di natura hobbesiano l’altro individuo è sempre un ostacolo perché rappresenta il limite per cui non si riesce eventualmente a raggiungere ciò che si necessita. E dato che ogni uomo gode naturalmente di un diritto assoluto, ognuno può fare tutto ciò che ritiene necessario per eliminare gli ostacoli: nello stato di natura uccidere è una necessità e dunque un diritto.

Nella realtà presociale immaginata da Hobbes l’uomo è quindi infinitamente potente, dotato di libertà assoluta e pieno possessore dei suoi diritti. Questa onnipotenza lo rende un pericolo per gli altri e per sé stesso, determinando così la grande fragilità che caratterizza l’esistenza nello stato di natura. Questa esistenza è dominata dalla paura costante di una morte violenta, ed è quindi un'esistenza misera, brutale, infelice e breve.

Pertanto, per Hobbes lo stato di natura è una situazione indesiderabile, ove la naturale spinta al dominio genera diffidenza e ostilità: «quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione» si ha lo stato di guerra «di ogni uomo contro ogni altro uomo». Pertanto, la ricerca della pace diventa l’obiettivo principale degli uomini, risulta necessario istituire un potere unico che possa garantire pace e sicurezza ed a tal fine gli uomini attraverso un patto fondano una società politica, che noi oggi chiamiamo stato. Perché questo meccanismo possa funzionare è necessario che tale potere sia centralizzato e racchiuso nelle mani di uno solo, il sovrano.

Locke descrive lo stato di natura secondo un’ottica differente. Egli considera lo stato di natura come quello stato di perfetta libertà e uguaglianza che regna tra creature «della stessa specie e grado». Lo stato di natura è qui un contesto in cui non è presente alcuna forma di subordinazione o soggezione dell’uomo sull’uomo, e dove non è quindi presente nessuna forma di governo. Ciò che differenzia il vivere in società civile (political society) dal vivere nello stato di natura è infatti l’esistenza di un governo, ovvero di un potere superiore a quello dei singoli che permetta la risoluzione delle controversie.

Lo stato di natura lockiano non è però una realtà di mera anarchia, bensì una condizione in cui vige una sola legge, la legge di natura, la quale previene ogni abuso. L’uomo è, per Locke, una creatura sociale e razionale, tale indole lo spinge verso la ricerca volontaria della pace, ovvero di una condizione in cui sia possibile vivere congiuntamente e ottenere vantaggi, una realtà in cui preservare sé stessi e l’umanità tutta.

La legge di natura non è però del tutto in grado di garantire la pace. Seppur razionale, essa è troppo astratta per poter valicare gli interessi personali ed essere realmente coercitiva. Per questa ragione, anche per Locke la soluzione preferibile per tutti gli uomini è quella di uscire dallo stato di natura, creando un potere superiore a quello dei singoli (ma non indipendente), ossia il government. Questo potere deve distribuire equamente le risorse, e deve garantire giustizia, equità e sicurezza.

Locke descrive lo stato di natura immaginando innanzitutto una natura capace di offrire sufficienti risorse per tutti. In questa condizione, gli uomini non riconosco il conflitto come inevitabile, ma tendono in ogni caso ad accumulare più risorse di quante non ne necessitino per cupidigia.

L’insaziabile accumulo di risorse deperibili spinge poi a trovare un modo per preservare il valore delle risorse stesse: la moneta. L’invenzione della moneta consente di trasferire il valore dei beni deperibili in un mezzo metallico non deperibile. La moneta si rivela così essere una invenzione presociale ed allo stesso tempo fornisce una formulazione del diritto di proprietà: per Locke questo è un diritto naturale poiché evidentemente originatosi nello stato di natura, non violabile ed eterno, come egli stesso ricorda nel Secondo trattato sul governo: «tutte le cose su cui poteva estendersi la sua industria (dell’uomo) a trasformarle dallo stato in cui la natura le aveva poste**, erano sue**… Doveva soltanto badare a servirsene prima che andassero perdute… E così siamo giunti all'uso della moneta, cioè a dire di qualcosa di durevole che si può tenere senza che vada perduto, e che per mutuo consenso si può prendere in cambio dei mezzi di sussistenza per la vita che sono utili, sì, ma corruttibili».

Lo scopo del government sarà quindi quello di garantire ad ognuno il possesso (diritto di proprietà) dei beni accumulati dai singoli grazie alle loro capacità personali, «gradi diversi d'industria conferivano agli uomini possessi in proporzioni diverse».

Locke ricorda che l’invenzione della moneta ha consentito di sviluppare un più alto tenore di vita «appena scoprì qualcosa che presso i suoi vicini avesse la funzione e il valore della moneta, l'uomo cominciò subito a estendere i suoi possessi» la riconobbe dunque come un bene. Il filosofo inglese colse però il rischio di una eccessiva cupidigia insita nell’animo umano e per questo invitò, attraverso la “clausola limitativa della proprietà”, a non privare gli altri di beni desiderabili, si tratta però di una limitazione astratta e priva di peso pratico.

Un altro diritto che si rivela naturale è il potere-diritto di punire i trasgressori della legge di natura. Per Locke ogni uomo possiede, nello stato di natura, il diritto di punire coloro i quali attentino alla propria sicurezza o a quella del genere umano. All’interno della società civile, il diritto di esercitare questo potere giudiziario deve però essere necessariamente deposto: se tutti potessero essere giudici assoluti delle proprie azioni o delle azioni altrui si avrebbe una situazione costante di confusione e disordine.

Lo stato di natura immaginato da Locke è una realtà in cui è possibile vivere, e dove è persino possibile accumulare ricchezze. Dunque, l’uscita dallo stato di natura è motivata dalla necessità di potersi vedere garantiti alcuni diritti fondamentali (tra cui la proprietà), e dalla necessità di un potere che possa essere giudice delle controversie, ossia di un potere cui rimettere il nostro personale potere-diritto di punire i trasgressori della legge di natura.

La politica ha il preciso scopo di proteggere i componenti della società, i loro diritti e i loro possedimenti.

Per saperne di più:

Si suggeriscono le opere principali dei due filosofi inglesi: De cive, elementi filosofici sul cittadino, 1642 Thomas Hobbes; Leviatano, Thomas Hobbes; Due trattati sul governo (Two Treatises of Government), 1690 John Locke; Per una visione vasta e basilare del rapporto tra politica e stati si raccomanda: La politica e gli stati, a cura di Raffaela Ghirardi, Carocci editore.

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