In questa intervista parliamo con Giuseppe Nibali del suo contributo al primo numero di Ultima e di alcuni caratteri generali della rivista, allargando poi il fuoco sul panorama della poesia contemporanea, chiedendo quale sia la sua posizione rispetto ad alcuni problemi e come egli si collochi, in quanto poeta, rispetto a essi.  Per un inquadramento generale della rivista Ultima e di questo gruppo di articoli rimandiamo all’introduzione precedentemente pubblicata. Questa intervista è stata sviluppata parallelamente a quelle a Tommaso Di Dio, Damiano Scaramella e Fabrizio Sinisi, e nasce dalla collaborazione di Margherita Coccolo, Antonio Galetta e Carlo Londero.

Con Ultima restituisci un itinerario umano e poetico che appare piuttosto vario: dai riferimenti all’antichità classica a quelli alla poesia del Novecento e del Duemila, dalla Grecia dei mistagoghi alla Sicilia di oggi, dal greco antico al dialetto che dà il titolo alla tua plaquette (Scurau). Questa varietà semantica è coerente con la varietà stilistica e formale che accogli nel tuo scritto per Ultima*Eden: paragrafi ora saggistici e ora narrativi, abbondanti citazioni di parola altrui. Per quale motivo poni gomito a gomito, sotto lo stesso titolo, amalgamati nello stesso discorso, elementi tanto diversi?

Un’indagine sui vari campi semantici e culturali che il poeta abbraccia è forse il tentativo più audace di Ultima. La questione che ci siamo posti, quella primigenia, quella fondamentale, riguardava la possibilità di darci una teoresi. Assediati come siamo da una generazione che questa possibilità rifiuta senza pace. Abbiamo cercato di approntare, quindi, una mappa,
autentica, che tenesse conto delle varie suggestioni, delle imboscate che la percezione ci ha mostrato come evidenze. Su questa base una tira l’altra: la Sicilia, terra che mi ha cresciuto, porta con sé la forza della sua grande storia, essa si ripete continuamente nelle famiglie medio e alto borghesi (come quella in cui sono cresciuto) e questa ripetizione vivifica Archimede e Diodoro Siculo, Socrate e Temistocle, gli ecisti insieme ai tragediografi. Tutto rende vivo. Per cui non c’è nessuno scandalo nel pienare la pagina con le contraddizioni, le ripetizioni, i vezzi e le fissazioni che assediano la nostra mente o, ancora meglio, questa amalgama è il noema dell’operazione stessa.

Descrivi le tue “Linee dell’origine e della morte” come un’«indagine», il cui oggetto è costituito da una coppia di «cadaveri»: quello della filosofia e quello della poesia. Questi sarebbero le spoglie, i resti, rispettivamente dell’oralità sapienziale (precedente alla fissazione scritta nei generi del dialogo e del trattato) e della tragedia greca, letteralmente,
dici, «morta» nella poesia. Ti chiedo di spiegare meglio cosa intendi suggerire proponendo questa genealogia.

Quella che tu chiami genealogia è invece, a mio avviso, più che altro una pista, un tracciato, una serie di orme sparse che tocca al poeta riorganizzare. Troppo approssimativa e soprattutto soggettivistica mi sembra la nomenclatura borghese di genealogia (che non sei tu a proporre, beninteso, in questi tempi). Per accettare questo termine dovremmo accettare la nostra presenza come genus, come gruppo coeso. Quando oggi parliamo di genealogia non facciamo
che parlare di genealogia personale, non rappresentando, la nostra generazione, nessuna gens. Di monadi dovremmo parlare, di biblioteca individuale e, all’interno di questa, delle nostre preferenze, di questo dovremmo dire. Per quanto invece concerne i due cadaveri, essi sono tali solo in potenza. Ma andiamo per ordine: entrambe, la filosofia e la poesia, sono morte. La prima è morta nel momento stesso in cui è diventata trattatismo. Sfrenato gioco borghese dello scrivere tautologie scambiandole per verità fondamentali. È una semplificazione, evidentemente, ma una semplificazione a cui aderisce il Platone del Fedro, quando annuncia di non poter affidare alla parola scritta nessuna verità fondamentale. Se Aristotele normalizza dunque i saperi rendendoli, per primo, enciclopedici e da padre della Filosofia, uccide la
Sofia, Euripide, padre della tragedia moderna, uccide la tragedia eschilea, quella autentica, dionisiaca. Noi, da sempre, siamo chiamati all’azione mesmerica di richiamare alla vita cadaveri decomposti.

In merito ai riferimenti all’antichità classica, dal tuo scritto è emersa la necessità di un richiamo alla funzione originaria della poesia: se la poesia è ciò che rimane della tragedia, se il recupero dei caratteri originarî è un valore da perseguire, allora parrebbe che la poesia debba sforzarsi di essere didattica, pedagogica. La poesia contemporanea deve o può rivestire questo ruolo? Accanto alla funzione didattica si affianca spontaneamente la riflessione sul ruolo sociale della poesia: durante la tavola rotonda a Udine hai citato Brecht e Pasolini: credi che la poesia militante possa ancora esistere?

La tragedia non ha un valore esclusivamente pedagogico, quella è una qualità che si ritrova, maggiormente, nell’epos. La tragedia ha però un grande valore didattico in senso sociologico, catartico, ancora di più, perché tiene in sé il male che assedia l’umano per rilasciarlo agli astanti che verranno, da quello stesso male, purificati. La tragedia e l’epica nell’Atene del V secolo non potevano ricoprire altri ruoli, a esse era affidato il portato morale di un popolo, di generazione in generazione. Adesso non può più, assolutamente, essere così. Anche la poesia così detta civile, a cui qui si fa riferimento, è una cosa completamente diversa e anche questa impossibile da riportare in vita. Brecht, Pasolini, Fortini erano, prima di tutto, critici della società, cittadini attivi, militanti politici, oggi l’unico orizzonte della lotta è il boicottaggio consumistico, l’indignazione di massa (massa qui assume il significato peggiore). Non c’è più una frontiera possibile, un piano d’azione, almeno non c’è più in senso esteso, diffuso. Resiste nelle case della cultura, nei circoli letterari, nelle università. In questa cornice risulta chiaro che parlare di un ruolo sociale della poesia è assolutamente risibile. Nessuno può essere vivo se non interagisce con la società che abita. Oggi i ragazzi, spesso anche gli universitari, non hanno letto una parola dei poeti del ‘900 e ancora peggio, ignorano completamente financo i nomi dei poeti contemporanei viventi.

In “Linee dell’origine e della morte”, insisti spesso nel creare una certa equivocità tra vivi e morti, tra regno della vita e regno della morte. Ad esempio riporti versi in cui ai morti vengono attribuiti caratteri e attività da vivi, mentre i vivi sembrano non essere davvero tali. Si tratta, in verità, di una delle tante opposizioni che dici giungere, con le parole di Bonhoeffer, «indivise dall’eterno»: uno spazio vago in cui gli opposti trovano sintesi deliberatamente controfattuale e contraddittoria, uno spazio denso di possibilità dove gli opposti coesistono ancora non frantumati nelle dicotomie che osserviamo ogni giorno. Compito della poesia sarebbe di risalire a questo «eterno» che dà sintesi indivisa alle opposizioni. È questo ciò che intendevi? Nella tua esperienza di poeta, quali effetti sortisce, quali scelte detta questa posizione?

Questa equivocità è endemica dell’essere umano. La morte, o meglio l’idea che di essa l’uomo ha, è una questione esclusivamente culturale, legata a tempora e mores che gli individui di quella società abitano e da cui sono abitati. L’idea della vita e della morte arrivano infatti indivise dall’eterno, dal freddo siderale dell’eterno, ma quel freddo è il gelo dell’antestoria, della storia che precede la percezione, sia essa storia della tribù, della famiglia, dello stato. La coscienza del morto e del vivo esiste solo nella mente dei vivi, così come anche l’idea di un regno oltremondano, distante, iperuranico. Lo spazio che ho cercato di descrivere è quello grigio che esiste, dentro la coscienza del vivo, nell’ipotizzare una continuità, uno scambio. Così, foscolianamente, l’uomo può cercare un rifugio negli estinti e nelle loro comparsate. Per quanto riguarda la questione saggistica, credo sicuramente che la poesia sia un richiamo, forse l’unico possibile, a quell’eterno che noi umani non riusciamo a pronunciare. Un lavoro di scolo, da distilleria, un lavoro di lievitazione lenta, che fa fermentare lo zeitgeist e lo incanala, tramite la penna, in un lavoro potente. Una sintesi è sicuramente da tentare, è la possibilità più interessante del testo, dell’arte, della poesia, solo sintetizzando, solo distillando la commozione della nostra finitudine possiamo fare buona poesia.

In un altro passo proponi che la parola poetica può avere per il poeta una funzione terapeutica nella progressiva accettazione dell’inevitabilità della morte. Recuperando Kierkegaard, riportando alcuni versi di Quasimodo, suggerisci che la coscienza è l’arma con cui stornare la paura di morire, e che questa coscienza può essere costruita attraverso la produzione di parola poetica. È effettivamente così?

No. Verrebbe immediatamente da dire. Senza poi nemmeno controbilanciare la violenza della risposta con una sua più corretta esegesi. Ma è chiaro che qualunque risposta sarebbe, a dir poco, incompleta. In realtà quello che mi viene in mente è la scena del Faustus di Thomas Mann in cui il protagonista Adrian riceve la visita del demonio, aveva appena chiuso, sentendo il gelo crollare sulla stanza, il commento di Kierkegaard al Don Giovanni. Oltre questa piccola citazione, e chiarendo che per me alcune pagine di Hegel o di Dante, di Marx o Rousseau rappresentano un bel antidoto al dolore, devo dire che ritengo vero il contrario: la coscienza è il motivo per cui l’uomo teme la morte. È la nostra natura altamente razionale, da animale matematico che ci rende difficile concepire l’oblio, il momento in cui saremo fuori dal percepito-me-stesso e dal percepito-altro-da-me. È quindi vero che la natura della felicità andrebbe ricercata in qualcosa che è, come la fede, posta fuori dalla coscienza.

Il tuo scritto è stilisticamente assai disomogeneo: a una prima parte documentata, densa di citazioni e con almeno un’apparenza di sistematicità (in ogni caso non c’è accademismo), subentra d’un tratto una seconda parte narrativa, col dettato laconico e frammentario. Esso è articolato in paragrafi mai più lunghi di una ventina di righe. La narrazione non è lineare, i piani narrativi si alternano e si intrecciano, alcuni brani fanno pensare, come per Di Dio ma più ellitticamente, a un esperimento di autofiction. Vorrei chiederti quanto sia usuale, per te, scrivere prosa narrativa, e in che rapporto questa attività stia con la scrittura poetica.

Vivo questa dicotomia assai liberamente. A livello accademico mi sono occupato sempre sia di poesia che di prosa. Per me, fin da bambino, non c’è stata molta differenza nell’approcciarmi alla prosa e alla poesia. Non facevo altro che cambiare tecniche e stili. Così quasi naturale è stato, d’accordo con gli altri compagni di Ultima, muovermi con questo passo difforme all’interno del mio piccolo saggio, alternando una prosa saggistica a una narrativa. Volevamo aprire le nostre botteghe e le nostre coscienze al lettore e per assumere pienamente la mia scrittura è necessario passare anche dalla prosa.

Benedetti, Ceni, Quasimodo sono i poeti contemporanei cui ti appoggi per costruire il tuo discorso. In un’intervista del 2013, invece, riportavi un canone tutto ermetico: Luzi, Gatto, di nuovo Quasimodo. Il ‘canone’ che esplicitamente proponi sembra essere mutato negli anni. È davvero cambiato? Qual è per te l’importanza, oggi, dell’ermetismo?

Benedetti, Ceni, De Angelis e il Quasimodo meno conosciuto (penso a Il falso e vero verdeLa vita non è un sogno, Dare e avere) fanno sicuramente parte del mio personalissimo pantheon. Nell’intervista qui citata reclamavo un rapporto di figliolanza, o meglio, un debito nei confronti di Luzi, Bigongiari, Quasimodo, Gatto, Macrì, Anceschi e di tutti coloro che hanno partecipato, all’inizio del ‘900, alla rivoluzione ermetica. Nessuna strada, né quella orfica o nichilista, né quella avanguardista, né quella ermetica, è stata da me dimenticata. Detto questo, credo che alcuni degli stilemi dell’ermetismo (l’analogia su tutti) siano ancora assolutamente presenti nella poesia italiana recente. Questo viene chiaramente da una lettura scolastica e dunque istituzionale e monolitica degli autori del primo Novecento. Dovremmo forse chiederci che cosa è stato, veramente, l’ermetismo. Se leggiamo Mallarmé e Apollinaire abbiamo già in mano quasi tutto Ungaretti, certo, non il Carso, non San Martino, non la guerra, per vivificare quelli ci vuole un poeta. Ma davvero siamo convinti che ci sia stato un solo ermetismo, e non piuttosto centinaia di diversi ermetismi tra loro in lotta? Quasi tutti gli autori ideologicamente non schierati del ‘900 sono stati considerati ermetici, anche Montale e il povero Saba. Oggi, più che l’ermetismo, sopravvive una certa divisione scolastica, ancora più frammentaria, sicuramente non dicotomica, in cui tutti, tanto gli epigoni della poesia di ricerca quanto i neo-metrici o gli orfici si richiamano in qualche modo al neo-simbolismo (ermetico o surrealista che sia).

Come si diceva, la tua plaquette pubblicata in Ultima*Vox ha un titolo dialettale: Scurau. Nell’estate 2019 hai vinto il Premio Giuseppe Malattia della Vallata con alcuni testi in dialetto, qui pubblicati in anteprima. Quanto è frequente, per te, scrivere nel tuo o in un altro dialetto? Quale pensi sia il valore di una simile operazione?

Il dialetto è una lingua viva. Questo non deve mai essere dimenticato. Scrivere in dialetto significa per me provare a chiedere una tregua alla mia terra, alla mia lingua, che torna di frequente tra i bar milanesi, in certi incontri, in piccole riscoperte quotidiane. Un uomo che non prova a pacificarsi con la sua terra è, secondo me, un uomo incompleto. Quindi è tutta terapeutica, o quasi, questa mia pratica. Gli esiti sono, devo dire, i più sorprendenti. Ricordo che quando ero all’Università giocavo con gli amici di Bologna a cambiare il tessuto linguistico di alcune mie poesie, che mi parevano molto brutte, portandole dall’italiano al dialetto: il miracolo. Se cambi il suono all’italiano, se lo chiudi all’interno di una gabbia fonica differente, ne ampli l’oscurità. È forse, il dialetto, l’arma dimenticata degli ermetici, come l’ondata dialettale della poesia contemporanea (Loi, De Vita, Franzin), l’ultima frontiera del neoermetismo. Ma, fuori dai giochi, sono convinto che i dialetti siano fucine importantissime, termini dialettali (dei più disparati) possono e devono diventare lemmi assunti dalla lingua italiana.

L’immagine di copertina è un’elaborazione di Ilaria Mai e proviene dai quaderni Ultima

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