Narra una leggenda che in un periodo non ben definito della storia un sultano turco, incuriosito dalla diversità linguistica del Caucaso, inviò un erudito ad impararne le lingue. Dopo diversi mesi costui tornò senza aver conseguito risultato alcuno. Il sultano, adirato, esigette una spiegazione; lo studioso, tirando fuori un sacchetto con dei sassi, disse: «Ascoltate – rovesciandone il contenuto per terra – per un forestiero quelle lingue non saranno mai più comprensibili del suono di queste pietre». Altre varianti della leggenda riportano che il sultano ordinò allo studioso di imparare un idioma preciso: l’ubykh, una lingua nord-caucasica parlata sulle rive orientali del Mar Nero, dichiarata estinta il 7 ottobre 1992, data della morte di Tevfik Esenç, il suo ultimo parlante. Effettivamente, questa lingua appagherebbe abbondantemente le aspettative, considerando che il suo repertorio fonologico consiste(va) nientemeno che di 84 fonemi consonantici e – forse – di 2 fonemi vocalici. Va da sé che le sequenze foniche prodotte da una tale lingua, sebbene sia un’esagerazione adottare il paragone fornito dalla leggenda, erano comunque poco familiari sia al parlante turco che, più in generale, alle lingue indoeuropee.

Già gli antichi avevano sperimentato la complessità linguistica del Caucaso; a tal proposito Strabone menzionava la presenza nella regione di almeno 70 tribù, parlanti ognuna la propria lingua. Plinio il Vecchio riferisce che gli scambi commerciali dei Romani a Dioscuriade (oggi Suhumi) richiedevano la presenza di ben 150 interpreti, ma la cosa che più colpisce è che ancor oggi questa regione, a metà strada tra Asia ed Europa, non è adeguatamente conosciuta e valorizzata.

Nell’estate del 1697 il filosofo G.W. Leibnitz scrisse delle lettere molto importanti, conservate oggi ne lo Allgemeiner politischer und historischer Briefwechsel, con lo scopo di ottenere dei materiali linguistici sulla situazione delle lingue all’interno dell’Impero Russo. Una di queste, della quale riportiamo il testo, ha per destinatario Pierre Lefort, capo dell’ambasciata russa a Berlino:

Mi prendo ancora la libertà di inviarvi la memoria qui allegata a proposito delle lingue che hanno corso nel vostro grande impero, lingue che ci sono finora sconosciute e che sono del tutto diverse dal russo, vale a dire quelle che sono comprese fra la Moscovia, l’Oceano, le Indie, la Persia, il Mar Caspio e il ponto Eusino. I campioni dovrebbero consistere nella traduzione del Pater noster e in una piccola lista di parole fra le più comuni di ciascuna di tali lingue.

Come ci si potrebbe aspettare, la risposta del capo dell’ambasciata fu negativa, dacché si trattava di «una cosa al momento impossibile!» Ad essere inaspettata, invero, è la conclusione il che filosofo riporta al termine della sua lettera:

Le carte fanno conoscere i confini degli Stati, ma non quelli delle nazioni, che l’armonia delle lingue fa risaltare meglio. Nulla illustra meglio la grandezza di un impero che la moltitudine di lingue che questo abbraccia.

Cosa intendeva Leibniz con l’espressione «armonia delle lingue»? E, ancor meglio, è qualcosa che possiamo trovare in quella terra ubicata tra «il Mar Caspio e il ponto Eusino»?

Certamente la situazione linguistica nel Caucaso è complessa; gli studiosi non sono neppure concordi nel ritenere quella caucasica una “famiglia linguistica”. Infatti, mentre certamente le lingue caucasiche meridionali (cosiddette kartveliche) sono tra loro imparentate al punto che la ricostruzione del proto-kartvelico è condivisa da pressoché la totalità dei linguisti che si occupano di questa branca, la questione delle lingue nord-caucasiche (di cui l’ubykh fa parte) è più complessa. In prima istanza non vi è una parentela stretta tra le lingue caucasiche meridionali e quelle settentrionali; alcuni lavori infatti hanno tentato, riuscendovi peraltro molto bene, un confronto tra il proto-kartvelico (la lingua che avrebbe dato vita alle lingue sud-caucasiche) e il proto-indoeuropeo (da cui deriva anche l’italiano).Immagine 0This file is licensed under the Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported license (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Caucasus-ethnic_it.svg)

Occorre dire che naturalmente il Caucaso non ospita soltanto lingue caucasiche; sono presenti infatti anche lingue indoeuropee (armeno, greco, curdo, osseto, taliscio, farsi e russo), lingue semitiche (ebraico, arabo) e lingue altaiche (azero, balcaro, caraco, kumyk, nogai, turkmeno e calmucco). Se escludiamo la Georgia, l’Armenia e l’Azerbaigian, la restante parte della regione è attualmente territorio della Russia, ma le zone a Nord della catena montuosa del Grande Caucaso sono Repubbliche che differiscono dalle altre entità federali russe, in quanto hanno diritto ad avere una propria lingua ufficiale (ex. art. 68 della Costituzione Russa).

Il problema insorge laddove la grande ricchezza linguistica del Caucaso, che si rinviene in maniera evidente nell’immagine riportata, deve confrontarsi con l’esigenza di creare una situazione sociale e politica che garantisca la mutua comprensione. Quale lingua, dunque, utilizzare come ufficiale? In molte delle regioni a Nord del Caucaso la situazione ha trovato il suo equilibrio nel bilinguismo russo, dove vi è la coesistenza di una lingua ufficiale a cui si affianca quella slava. Certamente la presenza di diverse lingue autoctone rende poco felice la selezione di una lingua (tendenzialmente la più parlata) a livello di co-lingua; se questo, però, può provocare disordini legati a rivendicazioni etniche, non è una soluzione neppure la politica linguistica adottata nel Daghestan, dove le lingue ufficiali sono ben 14: russo, aghul, avaro, azero, ceceno, dargwo, cumucco, lesgo (o lezghino), lak, nogai, rutulo, tabasarano, tat e tsakhur. Ciò ha provocato non pochi attriti, tenuto conto anche che il problema linguistico, strettamente connesso con quello etnico, favorisce in quella zona lo sviluppo di entità parastatali.

Nel 2014 Ramazan Abdulatipov, allora a capo della Republica del Daghestan, promosse senza successo una politica linguistica che aveva per obiettivo quello di rendere ufficiali nientemeno che le 32 lingue parlate nella regione, secondo quanto prevedeva anche l’art. 11 della Costituzione del Daghestan, nonostante ben 18 di queste lingue siano tuttora prive di alfabeto. Evidentemente, la connessione tra lingua e politica è sottile ed importante; basti pensare alla situazione italiana, dove le politiche linguistiche hanno a mano a mano sacrificato l’uso di quelle lingue, che in senso spregiativo ancora chiamiamo dialetti, in nome di una lingua nazionale, funzionale all’armonia di quello Stato che si è voluto fare nazione.

Se è vero che «l’armonia delle lingue fa risaltare meglio» i confini delle nazioni, è altresì vero che l’esistenza di uno Stato pare distruggere quell’armonia e quella ricchezza linguistica che trova consistenza propriamente nella dimensione etnica e non statale di una regione. Si direbbe dunque che l’armonia delle lingue debba opporsi all’armonia dello Stato, il quale raggiunge il proprio equilibrio nell’utilizzo di poche lingue o, comunque, di una lingua che, fra tutte per prestigio e importanza socio-culturale, si impone sulle altre, riducendo, e in alcuni casi annullando, l’utilizzo delle lingue autoctone. L’importanza delle politiche linguistiche è però ancora da discutere, poiché l’esigenza di conservare una lingua, più che per un puro interesse scientifico, viene rivendicata dagli stessi parlanti di quella lingua e, per tale motivo, le questioni linguistiche sono quasi sempre assimilate ad istanze conservatrici, che esprimono una mentalità “chiusa”, tipica di quelle popolazioni non aperte al mondo globale. In una prospettiva scientifica, il coesistere delle lingue, anche laddove il repertorio fonologico di queste sia paragonato al «cadere dei sassi», rappresenta una situazione di indescrivibile ricchezza per i motivi che abbiamo già discusso nel precedente articolo. Occorre preservare e custodire tale ricchezza, ma è altresì un fatto che le vicissitudini sociali e le esigenze politiche si impongono con una forza tale da non prestare ascolto a queste istanze.

È indubbio che per un corretto funzionamento dello Stato l’esigenza di una mutua comprensione, e quindi di una forma di linguaggio adeguata allo scopo, sia necessaria. Nel Daghestan la situazione sta tendendo all’utilizzo del russo come lingua franca, affiancato da almeno un’altra lingua ufficiale e inserito come lingua obbligatoria nelle offerte formative degli istituti. Convivere con 32 lingue, di cui 14 ufficiali, offre non pochi problemi, ma questa ricchezza e complessità è appunto “obnubilata” dalla presenza di una lingua super inter pares. Non è inoltre corretto parlare di “lingue nel giusto” o “lingue nel torto”: il russo non ha nessun diritto più di una lingua qualsiasi parlata nel Daghestan, né lo hanno queste sul russo, ma per motivazioni sociali e politiche si può ben prevedere quale si imporrà. Proprio come organismi viventi, infatti, alle lingue è permesso di “nascere” e “morire”; esse si modificano, entrano in contatto tra loro arricchendosi di tratti e perdendone altri, ma è in questa situazione, d’altronde, che si manifesta velatamente la loro armonia.

Per saperne di più:

I testi più dettagliati sulle lingue caucasiche sono ostici, anche per gli addetti ai lavori. Il lettore audace può trovare l’opera in 4 volumi edita da J. Greppin, The Indigenous Languages of the Caucasus, Delman, New York 1991-2004, e il testo di G. Hewitt, Introduction to the Study of the Languages of the Caucasus, Lincom Europa, München 2004. Più accessibile è: V.S. Tomelleri, La “famiglia” delle lingue caucasiche, in E. Banfi; N. Grandi, Le lingue extraeuropee: Asia e Africa, Carocci, Roma 2008. Un testo introduttivo sull’importanza delle politiche linguistiche può essere: D.E. Tosi, Diritto alla lingua in Europa, Giappichelli, Torino 2017.

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