Artificem gnarum […] laudent per secula gentes.

Che le genti lodino nei secoli l'abile artefice!

(Iscrizione autocelebrativa di Nicholaus, lunetta del portale maggiore della cattedrale di Ferrara, 1135 ca.)

Se c’è una caratteristica che oggi attribuiamo all’artista è quella della ricerca dell’originalità, il cui presupposto è certamente la consapevolezza della propria unicità, della propria autorialità: al collezionista, spesso, non importa tanto l’opera in sé – forse neppure la guarda, se non dopo averla acquistata –, quanto il suo autore. Non ci capita quotidianamente di sentire: «Il facoltoso personaggio x ha acquistato all’asta un Picasso, un Pollock, un Banksy»? In questi casi la nostra attenzione non si concentra sull’opera, ma sull’artista.

Questa moderna concezione autoriale è figlia di un graduale cambiamento di status, catalizzato dalla storiografia artistica cinquecentesca, benché cominciato già prima. E prima di allora? Quanto prodigo di nomi di artisti è stato il medioevo occidentale? Pochissimo. Cerchiamo di indagarne le cause. In primis, del medioevo abbiamo perduto e dimenticato molto: ciò è vero, ma è indubbiamente riduttivo. Quanti dei manufatti medievali sono firmati? Pochi, pochissimi. Perché? Forse il committente non gradisce. Forse, meglio, non rientra affatto nell’orizzonte mentale dell’“artista” tramandare il suo nome. E perché ho appena virgolettato “artista”? Perché dobbiamo cercare un termine diverso, che sia più appropriato al medioevo. Utilizzeremo artifex, dunque artefice, artigiano.

Questa variazione terminologica ci illumina, giacché implica un cambiamento dei nostri canoni di giudizio. Se l’artista medievale è un artigiano, come il fabbro o il falegname, ci sembra plausibile la sua debole autocoscienza, il cui sintomo più evidente è l’assenza di firme, l’anonimato; e ci pare altrettanto plausibile che la committenza – che ne condivideva l’habitus mentale – non desiderasse nulla di diverso. Committenza che, per inciso, dobbiamo considerare, perlomeno fino a un certo momento, come quasi esclusivamente ecclesiastica, non tanto perché non ne esistessero di altro genere, ma semplicemente perché i manufatti che noi oggi conosciamo sono quasi totalmente rapportabili alla Chiesa. Non solo, ma per gettare luce sull’autorialità è interessante notare che non di rado è proprio il committente a ‘firmare’ l’opera, sostituendosi di fatto all’artefice. Faccio un esempio celebre: Bernardo, vescovo di Hildesheim tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, è noto per la committenza di un gruppo variegato di manufatti ed è celebrato da una Vita Bernwardi come versato nelle arti meccaniche. Non solo, ma sulla cosiddetta kleines Bernwardskreuz, una croce argentea conservata nel Dommuseum di Hildesheim, un’iscrizione ci informa che BERNWARDUS PRESUL FECIT HOC, cioè che il vescovo Bernardo ha ‘fatto’ la croce. Il committente sembra dunque essere l’autore dell’opera, ma è logico che l’effettivo esecutore fosse qualcun altro.

Vediamo adesso alcune eccezioni al panorama finora delineato, tenendo debito conto di due premesse: che una riflessione omogenea – come questa – sul lungo periodo che stiamo considerando è inevitabilmente arbitraria e conduce a semplificazioni; e che è necessario estendere lo sguardo alle cosiddette ‘arti minori’, alle quali il medioevo attribuiva un ruolo di assoluta centralità. Proprio un ‘fabbro’, infatti, mostra eccezionalmente chiara coscienza di sé nel IX secolo (il fatto è ancora più eccezionale perché i nomi degli artefici altomedievali si contano sulle dita di due mani): si tratta del noto Vuolvinio, che si raffigura sull’altare d’oro della basilica di Sant’Ambrogio a Milano nell’atto di ricevere una corona dallo stesso Ambrogio, identificandosi come VUOLVINIUS MAGISTER PHABER. Colpisce non solo l’iscrizione, che celebra chiaramente un’arte meccanica, ma anche il rapporto diretto dell’artefice con il santo. È un caso isolato, anche se non sappiamo quale ruolo abbia concretamente ricoperto Vuolvinio; ma non dimentichiamo che è nobilmente magister.

Un altro maestro altomedievale, questa volta longobardo, firma l’antependium (cioè il fronte d’altare) dell’altare maggiore della chiesa di San Pietro in Valle a Ferentillo, in Umbria, nella prima metà dell’VIII secolo: è URSUS MAGESTER, che associa il proprio nome a quello che ne potrebbe essere un “autoritratto”. Di nuovo, la firma si può ben ritenere sintomo di una certa autoconsapevolezza e – cosa non da poco – attesta che il nostro artefice sa scrivere. Tuttavia, al di là delle perdite, indubbiamente ingenti, l’artefice altomedievale rimane sostanzialmente anonimo.

Talvolta il riconoscimento dell’artista proviene dall’esterno, cioè dalla committenza. È questo il caso di Buscheto, architetto della cattedrale di Pisa nella seconda metà dell’XI secolo, il cui sepolcro è murato nella facciata occidentale dell’edificio. È un fatto straordinario: la tomba dell’artefice ha grandissima visibilità, è un prestigioso (perché antico) sarcofago romano, corredato di una lunghissima e celebre epigrafe che lo paragona a Dedalo, mitico architetto, e a Ulisse, in virtù del suo ingegno. Buscheto, dunque, non è un semplice artefice; potremmo dire che è versato non tanto nelle arti meccaniche, ma soprattutto in quelle liberali, tanto da essere mitizzato dalla città di Pisa, che fu evidentemente ammirata dalla sua perizia. Insomma, avevano i Pisani coscienza dell’eccezionalità dell’architetto del loro duomo? Sì. Indubbiamente qualcosa è cambiato e la considerazione, altissima, di quest’artefice, non è più tanto distante dalla modernità.

Certo, Buscheto era architetto, dunque progettava, non maneggiava le pietre e non le maneggiava neppure Lanfranco, ritratto in vesti auliche in una celebre serie di miniature sulla costruzione della cattedrale di Modena, della quale fu architetto tra la fine dell’XI e i primi del XII secolo. Un’iscrizione coeva in posizione prestigiosa – murata all’esterno dell’abside maggiore dell’edificio – lo celebra come INGENIO CLARUS LANFRANCUS DOCTUS ET APTUS, dunque ingegnoso, dotto, perito… sembra di rileggere l’epigrafe in lode di Buscheto. A Modena però, e questo è fatto nuovo rispetto a Pisa, la committenza esalta con un’iscrizione in facciata anche uno scultore, Wiligelmo, che dovette essere una celebrità tra i modenesi: QUANTO SIS DIGNUS ONORE CLARET SCULTURA NUNC WILIGELME TUA.

Gli artefici cominciano a conseguire una certa fama, attestato della stima di cui godevano presso i contemporanei. Si comincia a prendere coscienza del valore del mestiere, tanto che Guglielmo II, re di Sicilia, commissiona a Bonanno Pisano i battenti per il portale maggiore della cattedrale di Monreale nel penultimo decennio del XII secolo. Mancavano artigiani del bronzo in Italia meridionale? No, tant’è vero che la porta settentrionale dello stesso edificio è commissionata a Barisano da Trani, un fonditore e scultore proveniente dalla Puglia. Evidentemente, però, la fama di Bonanno – che aveva realizzato le imposte bronzee del portale maggiore della cattedrale di Pisa (perduto), oltre alla nota porta di San Ranieri – era giunta nella lontana Sicilia, ed era un privilegio possedere una sua opera. Non ci sorprende, dunque, che egli firmi con grande autoconsapevolezza la porta siciliana: BONANNUS CIVIS PISANUS ME FECIT.

Le attestazioni di nomi d’artefici s’intensificano nel corso del XIII e del XIV secolo, quando il loro status cambia profondamente, tanto che Cimabue, Giotto, Franco Bolognese, Oderisi da Gubbio sono addirittura citati da Dante nel Purgatorio; Giovanni Pisano è DOCTUM SUPER OMNIA VISA nel pergamo di Pistoia; Simone Martini è immortalato da due sonetti petrarcheschi; pittori e miniatori divengono familiares dei re di Francia e di Napoli. La nobilitazione dell’artefice è evidente: è adesso che egli comincia a divenire artista, apprezzato per la sua bravura e perché – come Dio – è creatore; apprezzato soprattutto perché materializza le aspirazioni e i bisogni della committenza. Ma questa comincia già a essere un’altra storia.

Per saperne di più:

A titolo introduttivo sono ottimi e di facile accesso E. Castelnuovo, L’artista, in J. Le Goff (a cura di), L’uomo medievale, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 235-69; G. Curatola, s.v. Artista, in Enciclopedia dell’arte medievale, II, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, ad loc. (online). Per ulteriori approfondimenti rimando a E. Castelnuovo (a cura di), Artifex bonus. Il mondo dell’artista medievale, Roma-Bari, Laterza, 2004, con ampia rassegna della letteratura precedente; e al recente M. Castiñeiras (a cura di), Entre la letra y el pincel. El artista medieval. Leyenda, identidad y estatus. Atti del convegno internazionale (Barçelona-Vic, 7-8 novembre 2014), El Ejido, Circulo Rojo Editorial, 2017.

Immagine di corredo: miniatura dal Cod. Bodmer 127. Immagine di pubblico dominio (https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Codex_Bodmer_127_244r_detail_Rufillus.jpg).

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