Guardate cosa riesce a fare con la sua piccola storia: più ci ritorna sopra, e più cose scopre. Munro non è una giocatrice di golf sul campo pratica. È una ginnasta con un semplice body nero, sola sul pavimento nudo, che surclassa tutti i romanzieri con il loro armamentario di costumi sgargianti, fruste, elefanti e tigri.        [tratto da Alice Munro raccontata da Jonathan Franzen]

Ha dedicato la vita alla letteratura Alice Munro, ha scritto racconti, romanzi, è stata insegnante di scrittura creativa nelle migliori università canadesi, leggendo e correggendo le bozze dei suoi allievi, non ha mai smesso di occuparsi di storie, di riflettere sul processo della scrittura e sulle qualità che dovrebbe possedere uno scrittore, o un libraio, sempre pronta a consigliare un nuovo libro da dietro gli scaffali della sua libreria, la Munro's Books.

Ai libri ha dedicato la sua esistenza e proprio nei libri ha trovato un punto di riferimento nei momenti più difficili, un’ancora di salvezza nei periodi di crisi. La Munro’s Books apre nel 1963, quando la famiglia Munro vende la casa a Vancouver per trasferirsi nell’isola Victoria, proprio a seguito di un periodo di difficoltà vissuto dalla scrittrice, le cui ragioni più profonde sono state analizzate nell’articolo L’adattamento della scrittura al paesaggio in Alice Munro: l’isola Victoria e il ritorno a Huron County. «Feci i bagagli, misi in vendita la casa e trasferii le bambine tutt’altro che entusiaste in una casetta in affitto davanti a Beacon Hill Park» racconta Munro, «tutti dicevano che non era possibile guadagnarsi da vivere vendendo libri. Io ripresi a respirare». Vendere libri diventa la sua professione, e proprio i libri  saranno le medicine più efficaci per superare il blocco della scrittura. Alla libreria arrivano infatti offerte di lavoro per l’autrice, che inizia così a tenere corsi di scrittura all’università e torna a lavorare ad alcuni bozzetti: «ho quasi dimenticato di essere una scrittrice» (R. Thacker, p. 182), confessa alla casa editrice Ryerson.

Quando nel 1966 il marito, Jim Munro, decide di traslocare per l’ennesima volta, l’autrice fa sempre più fatica ad allontanarsi, soprattutto dalla propria libreria: «quando ci trasferimmo in quella casa, contro la mia volontà, ero incinta di otto mesi, e qualcosa accadde. Qualcosa si ruppe» (Ross) confesserà poi. Munro continua a scrivere ed insegnare, ma la lontananza dalla libreria influenza la sua ispirazione e la sua produzione. McGrath, editor del New Yorker, legge il suo racconto I Chaddeley e i Fleming e  afferma: «non so se sia o meno autobiografico, ma la mia sensazione è che lei abbia preso il materiale della reminiscenza e l’abbia fatto diventare qualcosa di molto più forte, un commovente, complicato racconto» (Thacker, p.369).

La complessità narrativa non appartiene però ai racconti di Munro, che nella sua produzione tende a seguire una trama consolidata e lineare. Lo scrittore Jonathan Franzen all’invarianza tematica fa corrispondere un’evoluzione psicologica dei personaggi. Secondo Franzen, «La storia che Munro continua a raccontare è questa: una ragazza sveglia», che «cresce nelle campagne dell’Ontario in una famiglia modesta» e «si sposa giovane, si trasferisce nella British Columbia», può infine avere «qualche avventura romantica». L’evoluzione caratteriale avviene in lei «quando, inevitabilmente, ritorna in Ontario, [e qui] scopre trasformazioni sconvolgenti nel paesaggio della sua giovinezza».

«Il paesaggio non è uno sfondo, non è una scenografia», sottolinea Jean Bukowski, «la natura è una protagonista, un soggetto con cui si dialoga, con cui ci si relaziona, indispensabile nella lotta senza fine per la definizione della propria identità» [Il Canada e i luoghi di Alice Munro]. Un’identità in continua definizione, secondo Franzen, «per il fatto che il mondo della sua giovinezza, un mondo di consuetudini e usanze antiquate, si erga ora a giudice delle sue scelte moderne. Cercando semplicemente di sopravvivere come persona integra e indipendente, ha subito perdite e stravolgimenti dolorosi; ha causato sofferenza».

L’affermazione sociale della figura femminile è in continuo divenire, come è stato possibile evidenziare nei primi due racconti del trittico. Nell'ultimo racconto, intitolato Silenzio, è invece l'evoluzione psicologica a manifestarsi in modo preponderante. La storia si sviluppa nuovamente a Vancouver e prende avvio dall’allontanamento di Penelope, figlia di Juliet, dalla casa materna per un radicale cambiamento spirituale. Dopo sei mesi di distacco, la madre decide di farle visita allo Spiritual Balance Center, una comunità religiosa di Denman Island. Significativa è la descrizione che Alice Munro riporta della loro chiesa per litoti, una chiesa non antica, non solenne, né protetta o tutelata:

In breve, Juliet si trovò a parcheggiare davanti a una vecchia chiesa – o meglio, all’edificio di una chiesa che poteva avere un’ottantina d’anni, intonacato a stucco, non certo antico né in alcun modo solenne come spesso erano le chiese in quella parte del Canada in cui era cresciuta Juliet. Alle sue spalle si ergeva una costruzione più moderna dal tetto spiovente, con una teoria di finestre sulla facciata, più un semplice palcoscenico, qualche panca e un probabile campo da pallavolo con la rete floscia. La trascuratezza regnava sovrana e il terreno, un tempo sgombro, stava subendo l’invasione di pioppi e ginepri. [Alice Munro_, Silenzio_, p.1390]

L’ambientazione assume un valore connotativo. La chiesa, trascurata esteriormente dall’uomo, abitata dalla natura selvaggia, rappresenta la dimensione spirituale della vita, a cui la protagonista non aveva prestato attenzione nell’educazione religiosa della figlia. Ad essa si contrappone invece la struttura moderna, dotata di servizi e immune all’invasione arborea di pioppi e ginepri, simbolo del rinnovamento interiore della figlia Penelope. È proprio in questo luogo che Juliet viene a sapere da Joan, la direttrice del complesso, che sua figlia l’aveva abbandonata alla ricerca della propria spiritualità senza lasciar traccia di sé:

Juliet: Dov’è? Dov’è andata?                               
Joan: Questo non posso dirglielo.                             
Juliet: In che senso? Non può o non vuole?       
Joan: Non posso. Non lo so. Posso dirle una cosa però, che dovrebbe tranquillizzarla. Dovunque sia andata, qualunque decisione abbia preso, sarà la cosa giusta per lei. La cosa giusta per la sua spiritualità e la sua crescita […] quando parlo di crescita, mi riferisco a quella interiore, ovviamente. [Alice Munro_, Silenzio_, p.1392]

Joan rimprovera a Juliet di non aver trasmesso alla figlia alcun insegnamento religioso. L’assenza di Penelope determina, nella vita della protagonista, un totale distacco dalla realtà. Juliet inizia a vivere nella continua attesa della figlia e questo provoca in lei una serie di disturbi psicologici: «le capitavano improvvisi scoppi di pianto, ogni tanto tremiti incontrollabili, ma li superava con brevi accessi di furia durante i quali girava per casa, battendosi un pugno nel palmo della mano». Juliet si assume la responsabilità di questa perdita, ma ad essa non sa dare giustificazioni concrete. Come sottolinea la studiosa Marisa Caramella, «diventa chiaro che la protagonista attribuisce la ragione di quell’abbandono alla decisione che ha preso di far mancare a Penelope “il cibo dell’anima”, la spiritualità». L’addio della figlia è motivato dalle scelte di Juliet, di non contrarre un matrimonio, di vivere laicamente, di tralasciare la religione respingendo qualsiasi credo sia per lei che per la sua famiglia. Il periodo di silenzio tra madre e figlia, ma anche tra Juliet e la sua memoria (a cui imporrà più volte di dimenticare), è un periodo che l’autrice lascia intendere durerà per tutta la vita.

Tutte le foto di Penelope furono relegate in camera sua, insieme a fasci di disegni a matita e carboncino che risalivano a prima di lasciare Whale Bay, ai suoi libri, e alla caffettiera mono tazza a pressione, comprata come regalo per Juliet con i primi soldi guadagnati lavorando d’estate da McDonald’s. Nonché certe stravaganze per la casa, tipo il minuscolo ventilatore di plastica da attaccare al frigorifero, il trattore giocattolo caricato a molla, la tenda di gocce di vetro per la finestra del bagno. La porta di quella stanza venne chiusa e, con il passare del tempo, fu possibile passarvi davanti senza turbamenti. [Alice Munro_, Silenzio_, p.1398]

In alcuni momenti, però, Juliet si abbandona ai ricordi dell’infanzia di Penelope, memorie che non avrebbe più potuto condividere né con sua figlia, né con suo marito Eric, che in questo racconto si ricorda annegato durante un’escursione in barca a causa del cattivo tempo. Anche per il funerale di suo marito aveva preferito «una cerimonia semipagana», che permettesse di bruciarne il corpo. Così – senza dir nulla alla figlia – Juliet gli diede addio con un rogo sulla spiaggia, poi si trasferì da Whale Bay a Vancouver dove iniziò la sua nuova vita con Penelope. Caramella, studiando la produzione di Munro, indica questo episodio come fondamentale per capire il senso del racconto: «L’autrice ipotizza che la vera ragione del silenzio di Penelope sia stata il silenzio di Juliet sulla morte del padre, e che la scomparsa della figlia sia la punizione per l’altro silenzio, quello del mancato “sì” alla madre morente, collegando così questo al racconto precedente. E rivela, senza raccontarla, la portata del proprio, personale, imperdonabile silenzio».

Confrontando la trama della storia con la biografia della scrittrice, si riscontrano diversi punti di contatto: nello specifico, la trasposizione di particolari biografici in forma narrativa si evidenzia dalla densità di rimandi e riferimenti testuali alla vita di Munro. «Basta citare singole parole, una per tutte l’aggettivo “pagano”, ripetutamente contrapposto a “spirituale” per segnare il tradimento della protagonista (e della scrittrice) nei confronti della religione dei padri, e delle madri», sottolinea Caramella. I trasferimenti da una costa all’altra del Canada costituiscono le tappe di un cammino di crescita, evoluzione e presa di consapevolezza del sentire di appartenere ad un luogo, ad un paese o una città da poter considerare casa. Se si analizzano quindi in successione i racconti del trittico di Munro, si può ben comprendere la determinante influenza del paesaggio e dei luoghi, a volte alleati e a volte nemici, nella produzione letteraria dell’autrice, tra successi e sconfitte.

Il trittico «è di nuovo il “romanzo” dell’intero percorso reale, mentale, intimo o addirittura inconscio, artistico, di Alice Munro. E le descrizioni del paesaggio, o le osservazioni sulle caratteristiche geologiche, o climatiche, sempre legate a stati d’animo, mai superflue o incongrue, accompagnano questo percorso facendo anche, del trittico, la storia, almeno geografica, di un continente» (Caramella, p.146). Munro ha scritto la storia geografica del suo Canada, ma (più o meno inconsapevolmente) ha scritto soprattutto la storia della sua vita.

Per saperne di più

Sheila Munro, Lives of Mothers and Daughters. Growing Up with Alice Munro, Toronto, McClelland & Stewart, 2001.

Catherine Sheldrick Ross, Alice Munro. A Double Life, Toronto, ECW Press, 1992.

Flavio Caroli, Philippe Daverio e Sebastiano Vassalli, Le anime del paesaggio, Milano, Interlinea, 2013.

Fabrizio Schiaffonati, (a cura di), Le anime del paesaggio: spazi, arte, letteratura, Novara, Interlinea, 2013.

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