水墨畫, ovvero Shuǐmòhuà, significa “pittura ad inchiostro e ad acqua” ed è uno stile pittorico monocromatico dell’Estremo Oriente che utilizza solo inchiostro nero in varie concentrazioni. Questo tipo di pittura potrebbe richiamare l’acquerello occidentale, ma è in realtà profondamente diverso. La shuǐmòhuà è l’arte che permette di raggiungere l’equilibrio tramite l’annullamento del sé. Per comprenderla bisogna partire dal pensiero sotteso ad essa: il pensiero taoista e zen.

Il taoismo è una filosofia mistica molto antica fondata da Laozi, vissuto nel VI secolo a. C. e autore del Daodejing, cioè libro del Dao e della virtù. Le varie dottrine sono state enunciate da pensatori cinesi vissuti tra il IV ed il III secolo a.C. Il Dao (o Tao) è la via, la norma dell’universo, la spontaneità, l’intelligenza suprema che regola tutte le cose, ed è composto da Yin e Yang, i due opposti che compongono tutte le cose, come per esempio passività e attività, oscurità e luce. È fondamentale la compresenza delle due polarità in ogni cosa, poiché dà origine alle cose e al divenire. Questo concetto è spiegato bene nel secondo capitolo del Daodejing: «tutti nel mondo riconoscono il bello come bello, in questo modo si ammette il brutto. Tutti riconoscono il bene come bene, in questo modo si ammette il male. Infatti, l’essere e il non-essere si generano l’un l’altro».

L’essere si origina dal non-essere. Il Tao è entrambe le cose, e dà origine al divenire. Tuttavia, il Tao non è come un dio, di cui si può parlare, che si può immaginare. Niente di tutto questo: il Tao è inesprimibile e indefinibile, non è possibile contemplarlo attraverso la logica. L’uomo è in pace con se stesso quando raggiunge l’equilibrio e può raggiungere l’equilibrio solo seguendo la Via, cioè il Tao. L’unico modo che si ha per seguire il Tao è liberarsi da ogni costruzione sociale e culturale, dimenticare se stessi, le proprie passioni, i desideri, le emozioni e le pulsioni più profonde, e realizzare il vuoto mentale. Realizzare il vuoto mentale vuol dire osservare senza giudicare, agire senza fini personali, cioè non agire. Il non-agire (wu-wei) è uno dei concetti fondamentali del taoismo, ed è l’atteggiamento che permette di raggiungere la virtù. La virtù autentica è quella del Tao e consiste nella “spontaneità di natura”, normalmente offuscata dall’ambizione umana, dalle leggi dei governi, dalle implicite regole sociali e culturali. Essere in armonia con se stessi vuol dire essere in armonia con la natura propria, come un neonato, o come l’acqua che si adatta ad ogni situazione, ma rimanendole sempre fedele.

Il Buddismo Zen è una pratica diffusa in Giappone derivata dal Buddismo Ch’an, diffuso in Cina dal leggendario Bodhidharma, il quale era stato illuminato dagli insegnamenti del Buddha in India. Zen è la traduzione del termine Ch’an, che a sua volta traduce il sanscrito Dhyana, e significa meditazione. Il Ch’an in Cina si è evoluto assorbendo molto dal taoismo, per cui presentano alcuni punti di contatto, come l’aspetto non dottrinario e spontaneo secondo il quale occorre liberarsi di tutte le domande che non fanno altro che distrarci.

La pratica autentica consiste nel vivere senza l’attaccamento e fare ciò che quotidianamente si deve fare. Lo Zen, come il taoismo, predica un vivere semplice ed ordinario, eliminando ogni falso problema prodotto dalla mente. È quindi fortemente improntato alla presenza mentale: l’essere perfettamente presenti a se stessi in ogni momento significa essere presenti alle proprie azioni. Solitamente, quando facciamo qualcosa con la mente, siamo sempre da un’altra parte, c’è sempre una sfasatura tra ciò che facciamo e i nostri pensieri: è questa la sfasatura che lo Zen mira a eliminare con la meditazione. La meditazione Zazen consiste semplicemente nello stare seduti, senza che la mente venga influenzata da alcun pensiero, che nasca interiormente o dall’ambiente circostante: sensazioni, pensieri, emozioni, affetti, tutto ciò che affiora alla mente durante la meditazione viene “lasciato andare”. Potremmo definire lo Zen come l’arte di dimenticare se stessi.

La comune ricerca di equilibrio è ciò che accomuna Taoismo e Buddismo Zen: per entrambe le dottrine l'equilibrio non è una condizione di quiete statica e perenne, ma è un continuo bilanciamento, un processo dinamico. Per il taoismo si tratta di equilibrare le due forze contrapposte, Yin e Yang, mentre la filosofia zen parla di corpo e mente, ma il concetto è lo stesso. È utile pensare ad alcune metafore utilizzate da Ray Grigg nel libro Il Tao e lo zen:

Questo equilibrio è simile a due danzatori che si muovono all'unisono in un grande ritmo musicale, o due amanti che si muovono all'unisono in un grande ritmo di passione. Vi è cambiamento eppure nulla cambia; vi è cambiamento eppure perfetta armonia.

L'esperienza dell'equilibrio è armonia con la natura: il musicista che suona è unito all'eternità che si sviluppa nella musica, il surfista che cavalca la cresta dell'onda è in equilibrio sul movimento di essa. L'equilibrio è in divenire, è un processo continuo e il mutamento è inevitabile, ma accettandolo si riesce ad arrivare a un equilibrio che risiede all'interno del mutamento: è questo l'equilibrio del saggio che accetta ogni cosa offerta dalla natura senza lasciarsi intimorire e senza rattristirsi.

Il Taoismo e il Buddismo, Ch’an e Zen, non possono essere considerati dottrine o teorie a cui ricondurre direttamente particolari forme di esperienze estetiche: nella cultura cinese e giapponese parlare di estetica come teoria del bello non avrebbe senso, in quanto non si è mai avvertita la necessità di sistematizzare le esperienze dirette della realtà in qualche teoria; si è sempre ritenuto che i tentativi di elaborare teorie finiscano per limitare le esperienze, pertanto viene sempre preferito il rapporto con la realtà al rapporto con i concetti, soprattutto se tali concetti pretendono di sostituirsi alla realtà. Per comprendere il nesso che lega queste dottrine filosofiche a delle forme di esperienza estetica è necessario uscire dai procedimenti di deduzione ed arrivare al nucleo centrale di queste teorie, da cui si irradiano le diverse forme artistiche: il vuoto. Non il vuoto come concetto, ma l’esperienza del vuoto, ottenibile solo attraverso la meditazione. L’importanza del vuoto è chiaramente spiegata nell’undicesimo capitolo del Daodejing:

Si ha un bel riunire trenta raggi in un mozzo, l’utilità della vettura dipende da ciò che non c’è. Si ha un bel modellare l’argilla per fare vasellame, l’utilità del vasellame dipende da ciò che non c’è. Si ha un bell’aprire porte e finestre per fare una casa, l’utilità della casa dipende da ciò che non c’è. Così, traendo partito da ciò che è, si utilizza ciò che non è.

Il non-essere taoista è tuttavia molto diverso dal concetto che permea la filosofia occidentale: da Parmenide in poi il non-essere diventa un concetto metafisico che esprime il nulla assoluto, mentre il non-essere della filosofia orientale è più simile a un non-esserci, a un vuoto determinato. Come ogni cosa, il vuoto non esiste allo stato puro, esiste solamente in relazione al pieno (l’essere si origina dal non-essere). Il vuoto è necessario per la costituzione di ogni cosa e rappresenta la vera utilità di ogni oggetto. Comprendere la necessità del vuoto, secondo il Taoismo, è una forma di conoscenza suprema. Su questa dialettica tra pieno e vuoto, sulla compenetrazione di essere e non-essere, sul valore formativo del vuoto si fonda l’esperienza estetica Taoista e Zen. Prendiamo come esempio l’artista Shi Tao, sommo pittore cinese (1641-1710), che seguì gli insegnamenti di un maestro di Buddismo Ch’an, e il suo dipinto Pittore-pescatore (figura 1): il vuoto, oltre ad essere la condizione di ogni segno, si presenta anche come cielo, come nebbia e come lago.

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Shi Tao, Pittore pescatore

In rapporto con i segni esso produce le distanze senza ricorrere ad alcuna costruzione prospettica. Per raggiungere questo risultato, il maestro Shi Tao, oltre a delle doti tecniche non comuni, doveva avere anche una padronanza del vuoto: doveva essere capace di realizzare il vuoto dentro di sé. Per poter utilizzare il vuoto nell’arte è necessaria un’intensa pratica meditativa, che permette di raggiungere il vuoto dell’anima, così che il pittore, quando dipinge, non si concentra su quello che sta dipingendo, mentre la mano si muove da sé, seguendo un’idea precisa, e il pittore si dimentica di se stesso e di ogni emozione. Wang Yuan Chi nel Yu Chuang Man Pi, un importante trattato di estetica, scrive:

Si deve concepire l’idea prima di afferrare il pennello, questo è il punto principale della pittura. Quando il pittore prende il pennello deve essere completamente tranquillo, sereno, calmo e raccolto, ed escludere tutte le emozioni volgari. Si deve sedere in silenzio davanti al rotolo di seta bianco, concentrando il suo spirito e controllando la sua energia vitale.

Ecco allora che la pittura diventa un’ulteriore occasione di meditazione, un modo per sperimentare la connessione con l’intelligenza universale, come se fossero gli oggetti che si dipingono attraverso il pittore, e non il contrario. Il pittore è uno strumento, che rende possibile l’espressione del supremo facendosi vuoto. Inoltre, nel tracciare i segni, il pittore deve esercitare le quattro virtù che gli permettono di saper dosare forza, intensità del gesto, finezza e grossezza del tratto: precisione, regolarità, coerente rotondità, energica elasticità. Per arrivare a ciò sono necessari anni e anni di pratica della meditazione e delle virtù, che permettono al pittore di dipingere senza pensare. Le opere degli artisti zen sembrano spesso composte di getto, senza troppo sforzo, ma si tratta invece del deliberato inganno del consumato maestro. L’assoluta precisione del colpo di pennello, al contrario, può venire soltanto da una persona la cui mente ed il cui corpo sono un tutt’uno. L’inchiostro viene assorbito quasi immediatamente dalla fibrosa carta di riso, non permettendo alcuna correzione una volta che la linea sia stata tracciata. Il pennello usato è imbevuto di inchiostro nero e nel dipingere il movimento deve essere senza incertezze o sbavature che porterebbero a macchie e comprometterebbero il disegno.

In conclusione, l’arte pittorica Taoista e Zen, al di là del mero giudizio estetico, non può essere compresa rimanendo ancorati al punto di vista occidentale: da una parte abbiamo l’estetica del vuoto, dall’altra l’horror vacui, che ha caratterizzato secoli di storia dell’arte occidentale; da una parte c’è l’artista-vuoto, che raggiunge le più alte espressioni artistiche solo dimenticandosi di se stesso, dall’altra l’artista-genio, che nella sua arte celebra sé stesso, le sue abilità tecniche, le sue idee, la sua visione. Due forme d’arte estremamente diverse, che rispecchiano due culture millenarie estremamente diverse.

Per saperne di più:

Laozi, Tao, il libro della via e della virtù, versione di Angelo Giorgio Teardo, Nuovi equilibri, Viterbo, 2008.

Daisetz Teitaro Suzuki, La dottrina Zen del Vuoto mentale, Ubaldini Editore, Roma, 1968, traduzione di Anna Maria Micks.

Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del vuoto: arte e meditazione nelle culture d'Oriente, Marsilio, Venezia, 1992.

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