«La memoria è tesoro e custode di tutte le cose». Nel De Oratore, Cicerone afferma che la storia è «testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita»: la memoria è conoscenza di un passato che ci permette di vivere e interpretare il nostro presente con maggiore consapevolezza. Tenere viva la memoria di ciò che è passato è fondamentale per valorizzare le esperienze vissute: si pensi all’utilità della trasmissione orale nella conservazione di un patrimonio culturale che sarebbe andato altrimenti perduto, quello stesso patrimonio che sarebbe confluito in due capolavori – Iliade e Odissea – così importanti da oscurare la lunga tradizione orale che li aveva preceduti.

Grazie agli studi di Milman Parry, grecista statunitense, fondatore della teoria della pura oralità nella formazione dei testi omerici, si è giunti alla conclusione che Iliade ed Odissea non siano altro che il punto di arrivo di una lunga tradizione orale. Lo studioso americano scoprì, infatti, che i cantori popolari serbi e croati erano in grado di memorizzare e recitare in pubblico canti della dimensione dei poemi omerici, grazie ad espedienti come le espressioni formulari e gli epiteti ricorrenti. Anche il metro usato per la poesia epica, l’esametro, è funzionale alla memorizzazione e concorre a confermare la teoria oralista elaborata da Parry. La poesia epica si presentava, dunque, come una prima raccolta di memorie che potesse non solo dilettare gli ascoltatori, ma anche tramandare un patrimonio di saperi e valori di portata universale.

Dovremo aspettare la metà del V secolo a.C. circa perché si giunga al genere della storiografia. Il massimo esponente della storiografia ellenistica, Polibio, nato a Megalopoli, in Arcadia, verso la fine del III secolo a.C, scrive nel I libro delle Storie: «il più chiaro e solo insegnamento a sopportare con coraggio i rivolgimenti della sorte è la memoria delle vicende altrui». La vittoria romana sulla Macedonia ottenuta da Lucio Emilio Paolo a Pidna nel 168 a.C segnò una svolta decisiva nella vita di Polibio. Il sopravvento del partito filoromano nella Lega achea portò alla denuncia degli esponenti della fazione avversaria, tra i quali lo stesso Polibio, che vennero deportati a Roma (dove avrebbero dovuto subire un processo, in realtà mai celebrato). L’esilio, tuttavia, permise a Polibio di introdursi nel prestigioso ambiente degli Scipioni, dalle tendenze filelleniche. Egli pose al centro della sua analisi storica proprio le vicende di Roma, ma con una precisa finalità ideologica: attraverso la memoria delle imprese che avevano determinato la potenza di Roma, voleva favorire l’integrazione tra Greci e Romani.

Polibio costruì un preciso metodo storiografico, i cui punti fondamentali sono enumerati nel dodicesimo libro delle Storie: analisi attenta delle fonti, conoscenza diretta dei luoghi, esperienza politica, esposizione chiara e lineare. Tale metodologia “pragmatica”, ossia basata sull’analisi dei fatti politici e militari, intendeva fornire al lettore una memoria completa delle vicende storiche, strumento insostituibile per una chiara comprensione degli eventi. Così dice Polibio nelle Storie:

Grazie alla memoria del passato, purché narrato secondo verità, sia l’uomo comune che il politico possono imparare, attraverso l’esempio altrui, a valutare con maggiore sicurezza qualunque situazione perché la conoscenza di ciò che è già accaduto rende più solide e fondate le previsioni per il futuro.

Altro grande impegno di Polibio fu quello di rendere memoria del processo grazie al quale Roma aveva raggiunto una potenza tale da rappresentare un esempio unico nella storia allora conosciuta. Lo storico espone in merito due diverse teorie. Una, nota come anaciclosi, affermava che qualunque forma di governo, a causa del germe di corruzione e degenerazione insito in essa, fosse per sua natura soggetta ad un inevitabile processo di dissoluzione. Secondo tale teoria la monarchia degenera in tirannide, l’aristocrazia in oligarchia, la democrazia in oclocrazia. L’altra teoria, invece, ipotizzava la possibilità di una «costituzione mista», in cui il potere regio, quello aristocratico e quello democratico coesistessero in un perfetto equilibrio, di cui proprio la res publica romana era modello. Le motivazioni che avevano reso possibile la grandezza di Roma meritavano di essere ricordate perché potessero costituire un modello di riferimento per il lettore: il risultato è l’idea della memoria storica come magistra vitae, come modello per affrontare con maggiore consapevolezza le decisioni presenti.

Questa visione è comune tanto alla storiografia di età ellenistica quanto a quella latina del I secolo d.C con uno dei suoi più illustri esponenti, Publio Cornelio Tacito. Quest’ultimo, nell’opera intitolata Vita e costumi di Giulio Agricola, rivendica l’importanza di ricordare la virtus di uomini illustri con un omaggio alla figura del suocero Agricola, scomparso nel 93 d.C., presentato come modello morale e politico per chiunque fosse chiamato a ricoprire incarichi di rilievo nell’amministrazione dell’Impero, con la convinzione che «anche sotto cattivi principi possono esistere grandi uomini». Era proprio grazie alle capacità di amministratori come Agricola che Roma poteva sopravvivere. Nel proemio dell’opera, Tacito sostiene che l’antica consuetudine di tramandare ai posteri le imprese e il sistema di valori degli uomini illustri resta valida anche per il presente. Questo accade ogni volta che un esempio di virtù riesce a vincere l’ignoranza del bene e l’invidia, vizi comuni alle piccole e alle grandi società.

Ma ci sono stati tempi, e forse ce ne saranno ancora, in cui è stato impedito che la memoria del passato venisse conservata e tramandata. Così Aruleno Rustico, tribuno della plebe nel 66 d.C., che si era opposto alla condanna di Trasea Peto, oppositore del regime neroniano, scrivendone una laudatio, fu condannato a morte da Domiziano nel 93 d.C; o, ancora, Erennio Senecione fu giustiziato da Domiziano per aver composto un elogio in onore di Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto, prima esiliato da Nerone, poi condannato a morte da Vespasiano. I triumviri ebbero, inoltre, l’incarico di far bruciare i loro scritti: forse con quel fuoco si pensava di cancellare la voce del popolo romano o la coscienza del genere umano.

Tacito esprime con chiarezza a quali perdite può condurre la tirannide: ‹‹anche la memoria stessa avremmo perduto, insieme con la voce, se, come il tacere, così fosse in poter nostro dimenticare››. Così la tirannide viene descritta come il regime dispotico che si insinua nella vita degli uomini, inducendoli all’inerzia, a quella dulcedo otii che non fa vivere. Il riferimento è ai quindici anni della tirannide domizianea (81-96 d.C), durante la quale si tentò di togliere voce a chiunque volesse rivendicare una certa indipendenza di pensiero che, senza controllo, costituiva una pericolosa minaccia. La libertà di affidare alla memoria ciò che si riteneva degno venne soppressa e cominciò una lunga serie di condanne a morte. La memoria secondo l’insegnamento di Tacito, è invece necessaria per tramandare ai posteri ciò che fa onore agli uomini, per conservare il ricordo degli esempi a cui gli stessi dovrebbero aspirare. La memoria è così l’ancora di salvezza per gli uomini ammutoliti da un regime dispotico e privati di anni di vita; questo il punto di partenza per ricominciare a vivere.

«La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace». Così scrive Primo Levi in I sommersi e i salvati, sottolineando la potenza che uno strumento come la memoria possiede nella creazione dell’identità di un popolo. Per questo, i tedeschi progettavano di far scomparire ogni traccia ed ogni testimonianza dei Lager e di ciò che vi accadeva, privando i deportati di qualunque pensiero o sentimento. La memoria, tuttavia, non muore finché noi siamo disposti a far rivivere ciò che è stato nel nostro presente, finché ci è concesso conservare i nostri ricordi.

«Perché quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranza. Che è come dire che stanno nel passato anziché nel presente». Così si legge in alcuni pensieri tratti dallo Zibaldone di Giacomo Leopardi. E ancora:

Similmente molte immagini, letture, ci fanno un’impressione e un piacer sommo, non per sé ma perché ci rinnovano impressioni e piaceri fattici da quelle stesse o da analoghe immagini e letture in altri tempi, e massimamente nella fanciullezza o nella prima gioventù.

La memoria delle passate esperienze può guidare le nostre scelte, permettendoci di non ripetere errori già commessi; rievoca momenti tristi che, però, possono rafforzarci, o momenti felici che possono rallegrarci. La “rimembranza” può consolarci ed essere una delle illusioni naturali più intense.

Era mia vita: ed è, né cangia stile,

o mia diletta luna. E pur mi giova

la ricordanza, e il noverar l’etate

del mio dolore. Oh come grato occorre

nel tempo giovanil, quando ancor lungo

la speme e breve la memoria il corso,

il rimembrar delle passate cose,

ancor che triste, e che l’affanno duri!

Questi sono alcuni versi tratti da uno dei Piccoli Idilli di Giacomo Leopardi, intitolato Alla Luna (in origine La ricordanza), composto nel 1819, in cui il sereno paesaggio lunare con cui si apre il componimento fa da tramite al ricordo. La notte, simile a tante altre vissute dal poeta, evoca un paragone tra due diversi momenti esistenziali, ma adesso come allora non è cessato il dolore. La simile condizione di sofferenza sembra annullare il tempo trascorso ma proprio da questo comune sentimento emerge una differenza: il dolore presente, vissuto sullo sfondo del ricordo e della distanza temporale si attenua e la rimembranza diventa un’illusione che conforta.

La memoria rende eterna la nostra esistenza, così che in essa non sia vano il trascorrere di secondi, minuti, ore o giorni: sarebbe stato persino inutile vivere se, una volta trascorsi, venissero gettati nell’oblio. La nostra stessa esistenza allora non avrebbe più alcun valore. Ma, come scrive Primo Levi, la memoria umana è uno strumento fallace: i nostri ricordi non possono essere incisi sulla pietra e tendono a svanire facilmente. Quale sia un rimedio possibile è difficile da stabilire.

Presente, passato, futuro: sono queste le fasi che scandiscono la nostra vita, ma non come archi temporali unici e irripetibili; il presente domani diventerà passato, il futuro domani sarà presente. E il passato? Esso guida il nostro presente e dà una direzione al nostro futuro; non muore in un tempo lontano ma può rivivere ogni giorno, se custodito nella memoria.

Per saperne di più:

Per uno studio approfondito degli autori trattati si rimanda a M. Bazzocchi, Leopardi. Profili di storia letteraria, Il Mulino, 2008; M. Belpoliti, Primo Levi. Di fronte e di profilo, Collana Biblioteca della Fenice, Parma, Guanda, 2015.

Per uno studio della letteratura greca e latina si consigliano Del Corno D., Letteratura greca. Dall’età arcaica alla letteratura dell’età imperiale, Milano, 1995; Canali L., Camena. Letteratura latina. Da Traiano alla fine dell’Impero, Milano, Einaudi Scuola, 2005.

Testi consultabili per i riferimenti letterari:

- Leopardi G., Zibaldone di pensieri, Mondadori, 2004;

- Leopardi G., Canti, a cura di Giorgio Ficara, con uno scritto di Giuseppe Ungaretti, Mondadori, 2018;

- Levi P., I sommersi e i salvati, Einaudi, 2014;

- Tacito P.C., La vita di Agricola in La vita di Agricola. La Germania, introduzione e commento di Luciano Lenaz, traduzione di Bianca Ceva, Biblioteca Universale Rizzoli, 1990.

Immagine di Ludovica Lanci, licenziata in base ai termini della licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported via Wikimedia Commons.

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