«Una biografia non è il racconto di tutta la vita di un uomo». Questo è uno degli ultimi messaggi che Italo Calvino ha tramandato tacitamente in dodici scritti, editi e inediti, messi insieme dalla moglie Esther dopo la sua morte con il titolo: Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche. Curioso, quasi paradossale, che questi scritti siano proprio interviste, stralci di taccuino, pagine autobiografiche corredate perfino di un curriculum vitae

Giova ripeterlo: la vita di un uomo non può essere raccontata con meri dati anagrafici — imbarazzava Calvino e imbarazza anche noi crederlo. Eppure, quante case editrici premettono una Cronologia della vita o una dettagliata Biografia dell’autore o dell’autrice al libro che si intende stampare? Anche Calvino ha spesso sottostato a questa prassi editoriale, certo, ma altrettanto spesso ha ribadito il diritto di conservare per se stesso, a volte con pudore quasi aggressivo, a volte con angoscia, date e fatti personali:

Dati biografici: io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente). Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra. Mi chieda pure quello che vuole sapere, e Glielo dirò. Ma non Le dirò mai la verità, di questo può star sicura. [Lettera a Germana Pescio Bottino, 9 giugno 1964]

E ancora:

Ogni volta che rivedo la mia vita fissata e oggettivata sono preso dall’angoscia, soprattutto quando si tratta di notizie che ho fornito io […] ridicendo le stesse cose con altre parole, spero sempre d’aggirare il mio rapporto nevrotico con l’autobiografia. [Lettera a Claudio Milanini, 27 luglio 1985]

In quest’opera postuma, sulla quale restano gli interrogativi se egli volesse pubblicarla o meno, e, se sì, in quale forma, Calvino sembra puntare però in una direzione diversa: non è una successione cronologica di eventi datati, ma sono pochi momenti isolati, quelli che meritano davvero di far parte di un’opera, anche solo interiore; pochi sprazzi di vita da mettere a fuoco, per tornare alle origini, all’esplorazione del venire alla luce, alla riappacificazione con il mondo prenatale che ci ha bruscamente chiamati in causa, per scoprire che, in fondo, non si ha niente da aggiungervi:

Ciò che conta è quel che siamo, è approfondire il proprio rapporto col mondo e col prossimo, un rapporto che può essere insieme d’amore per ciò che esiste e di volontà di trasformazione. Poi si mette la punta della penna sulla carta bianca, si studia una certa angolazione per cui vengono fuori dei segni che abbiano un senso, e si vede cosa ne vien fuori. (Spesso anche se si strappa tutto). [Il comunista dimezzato, in Eremita a Parigi]

Ecco allora che la fisionomia di Eremita a Parigi emerge con leggerezza e rapidità: un minerale grezzo in cui, stretti in un rigido schema cronologico, si trovano veri gioielli di ragionamento umano circa la vita vissuta, senza la pretesa di ricavarne alcun assunto generale e valido per tutti. Dal particolare al particolare, insomma.

Tra le pagine di Eremita a Parigi spuntano non a caso titoli di capitoli come «Diario americano 1959-1960», «Il mio 25 aprile 1945», «La mia città è New York», che vogliono sottolineare una volta di più che quei momenti sono scritti nel modo in cui li ha vissuti Calvino, o, almeno, nel modo in cui lui ha voluto scriverli, e che non potrebbero essere di nessun altro, tranne che suoi.

Come ricorda nella sezione intitolata Autobiografia politica giovanile — che, guarda caso, trovò spazio sulle pagine del «Paradosso», una rivista di cultura giovanile milanese — il vero pericolo da cui ci si deve guardare nello scrivere ricordi autobiografici è quello di «tendere a configurare la propria esperienza come un’esperienza “media” di una data generazione e ambiente, mettendo in risalto gli aspetti più comuni e lasciando in ombra quelli più particolari e personali». Nel suo caso, i fatti «più particolari e personali» erano l’avere due genitori «non più giovani, scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori, personalità diverse tra loro ed entrambe all’opposto del clima del paese», l’assenza di qualunque educazione religiosa nell’infanzia, il vivere nella Sanremo cosmopolita ed eccentrica.

Così Calvino si presentava in una nota biografica apparsa nel 1980 sulla rivista «Gran Bazar» e che oggi, per scelte editoriali, si trova premessa all’ultima edizione di Eremita a Parigi:

Comincerò dicendo che sono nato nel segno della Bilancia: perciò nel mio carattere equilibrio e squilibrio correggono a vicenda i loro eccessi. Sono nato mentre i miei genitori stavano per tornare in patria dopo anni passati nei Caraibi: da ciò l’instabilità geografica che mi fa continuamente desiderare un altrove. Il sapere dei miei genitori convergeva sul regno vegetale, le sue meraviglie e le sue virtù. Io, attratto, da un’altra vegetazione, quella delle frasi scritte, voltai le spalle a quanto essi m’avrebbero potuto insegnare; ma la sapienza umana mi restò ugualmente estranea.

Si resterebbe colpiti, leggendo Eremita a Parigi, che Calvino aveva scritto ben tre versioni diverse di questo ritratto, ciascuna per una collocazione diversa e quindi con una diversa finalità: un ritratto più scorciato e incisivo per un articolo di rivista, uno più lungo da allegare a una lettera a un amico, un altro più obiettivo e distaccato da premettere all’edizione Einaudi degli Amori difficili. O forse non si resterebbe colpiti affatto, visto che Calvino per primo ci insegna che la vita in sé non cambia, ma cambia il mezzo con cui viene veicolata? Eccoci a un altro insegnamento del genio di Calvino: una biografia non sarà il racconto di tutta la vita di un uomo, ma certamente è un modo come un altro per rendere pubblico quello che di solito passa inosservato, che non si vuole svelare completamente ma che si ha il gusto di lasciare indovinare.

Per concludere con queste pagine autobiografiche, non si può non accennare qualcosa al titolo scelto da Esther Calvino: Eremita a Parigi fa riferimento non solo ai soggiorni in America e in Francia dello scrittore, ma anche alla vita condotta in diverse città italiane, come Sanremo e Torino, che lo hanno portato da scrittore ad essere un «uccello migratore» di registri e temi (così si definisce lui stesso in Forestiero a Torino). Titolo molto calzante in generale per un’autobiografia, se si pensa al classico raffronto tra vita e viaggio; e si conferma calzante anche nel caso di questa, specialissima, che porta la firma di Italo Calvino:

Aspetti negativi del viaggiare? Si sa, distrarsi da quell’orizzonte d’oggetti determinati che forma il proprio mondo poetico, disperdere quella concentrazione assorta e un po’ ossessiva che è una condizione (una delle condizioni) per la creazione letteraria. Ma in fondo, anche se ci si disperde, cosa importa? Umanamente, è meglio viaggiare che restare a casa. Prima vivere, poi filosofare e scrivere. Gli scrittori innanzitutto vivano con un atteggiamento verso il mondo che corrisponde a una maggiore acquisizione di verità. Quel qualcosa che se ne rifletterà sulla pagina, quel qualunque cosa, sarà la letteratura del nostro tempo, non altro. [Il comunista dimezzato]

Per saperne di più:

Italo Calvino, Eremita a Parigi, Milano, Oscar moderni, 2019.

Giorgio Bertone, Italo Calvino. Il castello della scrittura, Torino, Einaudi, 1994.

Immagine di corredo: frame tratto dal documentario Italo Calvino: un uomo invisibile

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