“Mi sono trasferita a Perugia dalla Puglia quando avevo dodici anni per via del lavoro di mio padre, che fa il medico”.

“Ricordo il giorno in cui salutai la mia migliore amica delle elementari che partiva per trasferirsi a Parigi con la famiglia: aveva una patologia rara al cuore e solo lì esisteva un centro specializzato per la terapia. Non è più tornata qui a Tellaro. Ma, del resto, cosa te ne fai di un paesino ligure di 1200 abitanti quando stai in una metropoli cosmopolita che di abitanti ne ha più di due milioni?”

“Lavoro come receptionist in un albergo storico nel cuore di Roma: è un lavoro ben pagato che mi permette di entrare in contatto con persone provenienti da tutto il mondo. È una possibilità che non avrei mai nemmeno potuto immaginare se fossi rimasto confinato in periferia dove sono cresciuto”.

“Ho tredici anni e faccio la pendolare da un anno: volevo fare il liceo linguistico ma a Volterra non esisteva, per cui dovevo spostarmi per forza. Per l’università, so già che dovrò cercarmi un appartamento in una città vicina, Pisa o Firenze, per continuare gli studi”.

La propria condotta di vita impone inevitabilmente degli spostamenti, siano essi lunghi o brevi, temporanei o permanenti, all’interno o fuori d’Italia. Queste voci di testimoni immaginari forniscono una casistica credo nota a molti: ci si sposta per seguire la famiglia, per lavoro, per studio. Pur nella diversità di motivazioni che spingono gruppi di persone a muoversi dal posto che hanno sempre chiamato «casa», sembra comunque possibile ravvisare un filo rosso all’interno di questo coro di voci: uno stesso moto centripeto, uno stesso movimento che spinge alla fuga dalla periferia verso il centro, dagli angoli del mondo verso un cuore pulsante di modernità e di opportunità che quasi sempre si identifica con le grandi città e i Paesi più sviluppati.

Un fenomeno dei nostri giorni? Un movimento indotto dall’agitarsi della società moderna? Niente affatto. L’urbanesimo è un fenomeno sociale e demografico antico tanto quanto la nascita delle prime città in Mesopotamia, Egitto, India e Cina tra settimo e secondo millennio a. C.: lo spostamento di massa dai piccoli centri rurali verso le grandi città comportò inevitabilmente uno squilibrio demografico, e, di conseguenza, un dislivello economico e sociale.

La città possedeva senza dubbio grande attrattiva, non fosse altro perché costituiva un polo commerciale privilegiato dove il «lauto scambio» — per dirla con le parole del teorico finanziario William J. Bernstein — poteva avvenire in modo facile e sicuro: la pratica del baratto e successivamente la circolazione di monete avvantaggiarono senza dubbio la stabilizzazione di persone in un avamposto “moderno”, al passo con i cambiamenti dell’economia. Il commercio a lungo raggio favorì l’estensione dei confini cittadini: nelle sue Historìai, Erodoto racconta che nel VI secolo a.C. il faraone Amasis — questo il nome greco di Henemibra Iahmesi Saneith — concesse ai greci un avamposto egizio sul braccio canopico del delta del Nilo, la città di Naucrati, affinché la utilizzassero come base commerciale per poter esportare il grano, allora monopolio egizio. Storia analoga per Siracusa, fondata nell’VIII secolo a.C. dai greci per poter sfruttare il ricco suolo vulcanico che si estendeva intorno all’Etna sulla costa orientale.

Ma, come abbiamo premesso, i risvolti sulla popolazione di questo movimento dalle campagne alle città furono molteplici, e riguardarono anche la letteratura: nel XII secolo d. C., l’inurbamento portò all’avvento di un genere nuovo, la cosiddetta «satira del villano». Anche se si tratta di un’etichetta storiografica ed estetica estremamente precaria e tra le più discusse, non esistiamo qui a definire tale genere come “popolare”, da intendersi romanticamente come spontaneo, sgorgato direttamente dal pensiero e dal sentimento degli umili e dei semplici.

All’interno delle maggiori ripartizioni del genere della satira — morale, sociale e politica — la satira del villano costituisce una tipologia letteraria più dettagliata e precisa che rinvia direttamente all’antagonismo tra plebi rurali e cittadine: l’invadenza delle prime generò una polemica forte, che trovò posto facilmente all’interno della poesia primo-medievale, caratterizzata dall’interferenza canterina e giullaresca.

Non a caso, è il componimento di uno sconosciuto giullare del XIV secolo il primo esempio di satira contro il mondo dei contadini inurbati, i “villani”, appunto: Matazone da Calignano fu autore di un Detto di 285 versi settenari rimati a coppie tramandato da un unico manoscritto quattrocentesco, il C 218 inferiore dell’Ambrosiana di Milano, la cui lingua settentrionale è molto vicina alla mescidanza trecentesca. Va detto subito, però, che Matazone — cioè “matto”, “mattacchione”, con probabile allusione al suo mestiere — non è affatto un portavoce della nobiltà cittadina che metteva in scena la grossolanità dei sottoposti contadini, bensì di quell’atteggiamento canagliesco dei ceti proletari ed artigiani della città che polemizzava contro i parigrado della campagna.

Nella parte centrale del componimento, il tema della contrapposizione tra le due classi sociali è rappresentato attraverso una metafora: dal peto di un asino nasce il villano (vv. 84-120), dal connubio tra una rosa e un giglio il cavaliere (vv. 152-174). La differenza tra le due è dunque radicale e “naturale”, connaturata alla condizione sociale stessa, ed è per forza di cose gerarchizzata: il cavaliere, infatti, appena nato e già mirabilmente adorno e vestito, riceve in dono il villano come una cosa priva di valore, di cui servirsi a suo piacimento (vv. 175-224). Ciascun lavoro di fatica contadina attribuito al villano (fargli potare la vigna a marzo, farlo vendemmiare in settembre, fargli raccogliere la legna in novembre) e ogni sopruso fattogli (farlo camminare scalzo in gennaio) è legato a un mese specifico e segue, in un eccezionale adattamento autonomo, il Trattato dei dodici mesi di Bonvesin de la Riva (vv. 225-285).

Dopo questa prima, acerba sperimentazione, il gusto per la satira villanesca rimase in auge almeno fino al XVI secolo, e l’Opus maccaronicum o Maccheronee di Teofilo Folengo, di cui sono note quattro diverse redazioni autoriali del 1517, 1521, 1539-40 e 1552, ne fornisce una nuova chiave di lettura parodiata: Tognazzo, il notabile dell’immaginaria città di Cipada che ha organizzato la cattura del nobile Baldo, conduce il fratellastro di Baldo Zambello a Mantova:

Moccatum teneat tunc nasum perque nientum / ardimentum habeat capitis grattare pedocchios. / Zambellus numquam strepitosas viderat urbes, / quamvis non multum discostet Manto Cipadam. / Quapropter totum paret sibi cernere mundum, / quum videt a longe tot mucchios esse casarum. / […]
namque procul cernens tantos fumare caminos / ascoltansque simul de campanilibus altis / campanas resonare omnes, dum nubila tronant / […]
se tirat in dretum, dubius si mundus abassum / tunc veniat, tanto circum strepitante tonatu. / At strassinat eum Tognazzus more vedelli, / quando becariam non ille intrare talentat. [Baldus, VI, vv. 78-83, 87-89, 91-93]

Tenga il naso pulito e in nessun modo abbia / 
l’ardire di grattarsi i pidocchi dalla testa. / 
Zambello non aveva mai visto le città piene di attività, / 
anche se Mantova non dista molto da Cipada. / 
Perciò gli sembra di vedere tutto il mondo, / 
quando vede da lontano che ci sono tanti mucchi di case. / 
[…]
vedendo lontano fumare tanti camini, / 
sentendo suonare dall’alto dei campanili / 
tutte le campane, mentre le nuvole tuonano / 
[…]
si tira indietro, temendo che il mondo rovini giù / 
proprio allora, tanto è il frastuono che rimbomba tutto intorno. / 
Ma Tognazzo lo trascina come un vitello / 
quando non gli va di entrare in macelleria.

Certo, l’episodio di Zambello che s’inurba è di ascendenza dantesca, più probabilmente boccacciana, che fa ricordare una volta di più quanto il poema folenghiano sia un eccezionale collettore di modelli, ma è comunque valido per il nostro discorso per introdurre una questione finora solo sottesa: la reazione di spaesamento di chi, in questo caso, abituato alla sola vita di campagna, vede per la prima volta un mondo nuovo, pieno di «tantas casas» unite insieme, di tanti camini fumanti e di tante donne, uomini e muli per le strade.

Eppure, si tratta di un’emozione che tutti conosciamo, sia che la si provi davanti ai grattacieli di New York, sia che la si provi entrando e vivendo per la prima volta in una città ben più grande della propria. Esiste anche oggi una moderna satira del villano, quindi, ferme restando queste analogie? Esiste ancora chi si beffa e chi parodia il modo di comportarsi dei nuovi inurbati, o dei contadini rozzi in opposizione ai cittadini eleganti?

La risposta sembra essere negativa: con la progressiva eliminazione della mezzadria e con il legame molto più stretto tra campagna e città rispetto al XIX secolo, la vena satirica villanesca sembra ormai relegata solo al passato. Gli ultimi lasciti di questa tradizione ci provengono dalle canzoni, come il canto di Bistone raccolto solo nel 1976 ad Acquaviva di Montepulciano (SI) dalla voce di un ex-mezzadro analfabeta di sessantotto anni, che giocava però sulla subalternità padrone-mezzadro, e non sulla contrapposizione cittadino-villano.

Del resto, il bullismo e la discriminazione verso chi è meno fortunato, verso chi vive in condizioni inferiori rispetto agli altri, verso chi è incapace di integrarsi in una realtà che non gli è propria, sembrano ormai giocarsi sul terreno di diversità di quartieri e di zone (basti pensare, a Roma, al famoso quartiere benestante dei Parioli contrapposto a quello malfamato di Tor Bella Monaca), piuttosto che su quello di disparità tra campagna e città.

Nel caso della satira del villano, la letteratura e la musica sono gli unici scrigni in grado di raccontarci qualcosa di una situazione storica forse non più attuale, ma che di certo vive nella nostra quotidianità sotto altre forme.

Per saperne di più:

Aldo Rossi, Poesia didattica e poesia popolare del Nord, in Storia della letteratura italiana, diretta da Emilio Cecchi e da Natalino Sapegno, I. Le origini e il Duecento, Milano, Garzanti, 2001, pp. 261-360.

Mario Chiesa, Folengo. «Baldus», I, Introduzione, Torino, Utet, pp. 9-21.

William J. Bernstein, Il lauto scambio. Come il commercio ha rivoluzionato il mondo, [traduzione italiana di Nicola Baccino], Milano, Marco Tropea Editore, pp. 57-61.

Immagine di corredo: L'Angelus di Jean-François Millet. Via Wikimedia Commons (L'autore è deceduto nel 1875, quindi quest'opera è nel pubblico dominio anche in tutti i Paesi e nelle aree in cui la durata del copyright è la vita dell'autore più 100 anni o meno).

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