«E chiunque vorrà, potrà viaggiare in qualunque paese e regione del mondo, sapendo di capire tutti e di essere da tutti capito».

Queste parole di Jan A. Komenský, conosciuto in Occidente con il nome di Comenio, descrivono in maniera inequivocabile un imprescindibile bisogno dell’animo umano: la necessità di comunicare. L’idea di una lingua universale è stata, a partire dai primi dibattiti moderni, che nascono a cavallo tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo per merito di pensatori come Descartes e Leibniz, legata in maniera più o meno esplicita alla rifondazione dello stato pre-babelico dell’umanità, una condizione in cui tutti gli individui erano in grado di comprendersi; intellettuali come Charles K. Ogden (autore del Basic English) hanno parlato in tal proposito di debabelization.

Una lettera di René Descartes all’abate Mersenne, in data 20 novembre 1629, spiegava come avrebbe dovuto essere una lingua universale capace di mettere in pratica le caratteristiche della nuova epoca scientifica: una lingua che sapesse essere, insomma, rigorosa come la matematica o la fisica, nonché in grado di esprimere il pensiero umano in maniera chiara e priva di ogni filtro linguistico. I requisiti individuati da Cartesio per questa proposta sono tre: la lingua andrebbe appresa in un tempo molto breve, di circa cinque o sei giorni (dunque essa deve essere a sua volta facile sia da scrivere che da pronunciare); il rapporto tra le parole e le idee dovrebbe assomigliare a quello tra i numeri, che sono ordinati attraverso regole precise; i pensieri devono poter essere scomposti in “idee semplici”, combinati poi attraverso operazioni logiche. Questo primo tentativo glottopoietico trovò poi questa conclusione:

Io ritengo ora che questa lingua sia possibile, e che sia a sua volta possibile trovare la scienza dalla quale dipende: grazie ad essa i contadini potranno giudicare la verità delle cose meglio di quanto non facciano gli attuali filosofi.

La discussione sull’esigenza di una lingua universale crebbe esponenzialmente nei secoli successivi. In un articolo del 1988, Aleksandr D. Duličenko scrisse che nel XVIII secolo erano stati presentati almeno 50 progetti di lingue candidate a diventare lingua universale, nel XIX secolo le lingue erano state 246 e, infine, 560 nel ventesimo secolo fino al 1988.

Il primo tentativo a prendere forma fu la lingua Volapük (lett. “lingua del mondo”) “nata” ad opera dell’abate Johann M. Schleyer nel 1879. Il Volapük è una Lingua Ausiliaria Internazionale (LAI), ossia una lingua pianificata allo scopo di essere utilizzata come lingua franca. La “lingua del mondo” segue il principio del Lautbild: ad ogni grafema corrisponde un solo fonema. Come riporta Federico Gobbo in Interlinguistica ed Esperantologia. Pianificazione linguistica e lingue pianificate:

Per opinabilissime ragioni di facilità nella pronuncia per tutti i popoli del mondo, tra i 28 fonemi del volapük, calcati dall’inglese e dal tedesco manca la erre perché considerata difficile per i cinesi […]. Schleyer attua una drastica pianificazione del lessico: le lingue fonte del lessico, prevalentemente l’inglese e il tedesco, sono irriconoscibili, perché in nome della semplicità della pronuncia le parole vengono rese monosillabiche, sul modello del cinese. Il tedesco Berg (montagna) diventa bel, il latino animal diventa nim, il francese compliment diventa plim, l’inglese knowledge diventa nol. Tali trasformazioni sono completamente criptiche, e rendono la lingua difficile da maneggiare.

Con la nascita del Volapük nasce però anche una nuova disciplina: l’Interlinguistica, che, afferma Gobbo, «studia la comunicazione fra interlocutori di idiomi diversi, anche per mezzo delle lingue internazionali o ausiliarie, e che dal 1918 sarà riconosciuta ufficialmente come una scienza a sé». Altre lingue, prodotte da quella che Gobbo definisce come «la furia glottopoietica del Novecento» sono state l’Esperanto, l’Idiom Neutral, il Latino Sine Flexione, l’Ido, l’Occidental e l’Interlingua, oltre che al già citato Basic English, per non parlare poi di quelle nate per pura funzione ludica o per scopi diversi dalla comunicazione internazionale come l’elfico di John R.R. Tolkien, il klingon di Mark Okrand o il Toki Pona di Sonja E. Kisa.

Tralasciando per ora l'esperanto, il cui successo lo rende unico nel panorama delle LAI, molti linguisti si interessarono alle lingue pianificate e contribuirono attivamente anche alla creazione di alcune di esse. Nel 1888, il linguista Hugo Schuchardt scrisse un opuscolo in difesa del Volapük, dove difese detta lingua dai pregiudizi che a breve analizzeremo più dappresso. Fondamentali saranno anche i contributi di Jan I. Baudoin De Courtenay, J. Otto H. Jespersen (autore del Novial), Nikolaj S. Trubeckoj. Giuseppe Peano, matematico e logico, nel 1903 pubblicò un articolo scritto in latino, in cui semplificava passo dopo passo la grammatica fino a raggiungere quello che definì latino sine flexione, lingua da proporsi come medium della comunicazione scientifica scritta, verosimilmente molto comprensibile per un italofono:

Latino sine flexione, forma de lingua que me adopta, non habe gramatica, vocabulario, non es in commercio, non da concursu, et non es lingua officiale de Academia.

Nel 1903, con la pubblicazione del voluminoso testo, noto nel settore, di Louis Couturat e Léopold Leau, Historie de la langue universelle, si andarono delineando le prime sistematizzazioni di una storia dell’interlinguistica, in cui venivano esaminate le principali costruzioni linguistiche messe in atto dai più grandi glottoteti allora conosciuti. La questione assunse tanta importanza che quattro anni dopo, nel 1907, venne fondato un comitato interno alla Délégation pour l’adoption d’une langue auxiliaire internationale, con lo scopo di analizzare tutti i progetti di LAI già pubblicati. Nacque così, in seno ai sostenitori dell’esperanto, la lingua ido, che in esperanto vuol dire “discendente” e che venne proposta come riforma della Internacia Lingvo; essa venne tuttavia abbandonata dopo alcuni anni.

Significativa, è, a suo modo, la proposta di Charles K. Ogden, che con il forte auspicio di Winston Churchill teorizzò una forma estremamente semplificata di inglese, che consisteva di appena 850 lessemi di base: il Basic English. Da questa lingua derivarono numerose riforme, delle quali conviene probabilmente ricordare l’ultima e la più importante: il Globish, proposto dall’ingegnere francese Jean-Paul Nerrière in un’intervista intitolata Don’t speak English. Parlate globish!, del 2006:

Il punto di forza del globish è che gli appartenenti tra altre nazioni comunicano con un inglese limitato. Il globish vuole disciplinare questa semplificazione apportando un vantaggio notevole. […] Il globish parte da una constatazione inevitabile, il dominio della lingua inglese, e ne trae profitto, per fare qualcosa di pratico e semplice. Non è un’invenzione o un artifizio, ma piuttosto un adattamento.

Un’eccezione rispetto a tutte le LAI finora analizzate è la lingua internazionale esperanto, il cui primo manuale venne pubblicato da Leizer L. Zamenhof nel 1887. Ad oggi, l’esperanto rappresenta la lingua ausiliaria internazionale più utilizzata, funzionale a tal punto da coinvolgere nel dibattito su questo fenomeno persino il linguista francese Antoine Meillet, il quale ebbe modo di dire che «la possibilità di istituire una lingua artificiale facile da imparare e il fatto che questa lingua è utilizzabile sono dimostrati dalla pratica. Ogni discussione teorica è vana: l'esperanto ha funzionato».

Anche in Italia, linguisti del calibro di Bruno Migliorini e Tullio De Mauro, nonché lo stesso Umberto Eco, hanno espresso pareri positivi sulla lingua di Zamenhof. In un suo celebre manuale per l’apprendimento dell’esperanto, Migliorini sostenne che la lingua internazionale della comunicazione non può essere una lingua europea, perché questo sarebbe «oltre che ingiusto, impossibile. Ingiusto, perché attribuire a una lingua (poniamo l’inglese o il francese) il carattere di lingua internazionale vorrebbe dire da parte delle altre nazioni accordare a quella prescelta un immeritato privilegio, quasi un protettorato morale. Impossibile, perché non ci sarà forza al mondo che spinga i Francesi a cedere agli Inglesi, e viceversa, e pretendere di giungere a una soluzione simili vorrebbe dire perpetuare il caos», continuando poi:

Io affermo solo questo: che ogni persona che abbia qualche ragione d’entrare in relazioni pratiche con l’estero trova già adesso il suo tornaconto a dedicare un mese o due allo studio dell’esperanto, e molto più ne troverà in seguito se, come è lecito ritenere da molti indizi, l’esperanto si diffonderà anche di più.

Se la lingua internazionale o universale non può essere una lingua nazionale, non deve però, ritiene il senso comune, nemmeno essere artificiale, perché una lingua artificiale è una lingua falsa, non nata dalla spontaneità del processo glottogenetico popolare. In realtà questa concezione non si fonda su nient’altro che sull’interpretazione della lingua che fu elaborata durante il Romanticismo e che sopravvive ancora oggi.

Questo tipo di ostilità, notata peraltro già dal linguista André Martinet, è soltanto di natura psicologica. Molte sono le lingue “fabbricate”: l’ebraico moderno, l’attuale irlandese, l’estone, ed anche il sanscrito, che ha prodotto capolavori letterari, sono lingue progettate secondo uno scopo ben definito (nel caso di quest’ultima, quello di essere una lingua perfetta, che è peraltro il significato stesso del nome “sanscrito”). I linguisti, dice Martinet in un’intervista del 1987, «sanno benissimo che le lingue sono altamente artificiali»; l’esperanto, orbene, è soltanto un po’ più artificiale. Anche Umberto Eco, nel 1993, ebbe modo di esprimersi sostenendo che «l’artificialità dell’esperanto non è uno svantaggio. Prima di avere idee più chiare sull’esperanto anch’io ero disturbato dalla sua artificialità. Ma, in effetti, se non sapessi che si tratta di una lingua artificiale, avrei potuto crederla naturale». Vi è, continua Eco, anche il timore che una lingua pianificata possa eliminare la lingua madre:

Si vede un attacco contro l’integrità dell’individuo, e questo è sicuramente il punto essenziale: quando si dice “inglese”, “tedesco”, “spagnolo” si pensa “Apro le porte a qualcosa che esiste”; se si dice “esperanto”, la gente si chiede “A cosa serve l’esperanto?” […] È evidente che, nel mondo attuale, bisogna anzitutto studiare l’inglese. Contro questo gli esperantisti non possono far nulla.

Certamente, però, vi sono anche delle ragioni politiche dietro la mancata adozione di una lingua ausiliaria internazionale. Nonostante ben due risoluzioni dell’UNESCO del 1954 e del 1985, in cui venne demandato «al Direttore Generale di seguire costantemente lo sviluppo dell’esperanto come strumento per una migliore comprensione fra nazioni e culture diverse», quando Martinet, allora Presidente della IALA (Associazione Internazionale per la Lingua Ausiliaria), provò a contattare i responsabili dell’UNESCO, si accorse che «in realtà, dietro la cortesia e le gentilezze, c’era il blocco di chi paga, di chi lo sovvenziona, in primo luogo gli USA e la Gran Bretagna. “Non si può far nulla contro la lingua di chi finanzia”. E i francesi, che consideravano internazionale anche la propria lingua, reagivano allo stesso modo. Il blocco dell’UNESCO è in realtà il blocco delle grandi lingue».

Infine, tra pregiudizi e ostacoli politici, il sogno di una lingua universale sembra dover rimanere tale. Alla luce di queste considerazioni, occorre chiedersi in che senso è possibile condividere le parole di Meillet. L’esperanto ha davvero funzionato? Certamente si può affermare che in qualche modo stia funzionando, dal momento che molti individui, anche esterni al movimento esperantista, si interessano alle problematiche connesse con la giustizia linguistica, di cui peraltro si è già discusso in un precedente articolo. Se si parla di lingua universale, i nomi che ormai vengono in mente, rispettivamente legati alla dimensione pratica e a quella ideale, sono due: inglese ed esperanto. Sebbene molte altre osservazioni si possano ancora fare, concludendo con le parole di Migliorini, «siamo certi che i fatti varranno a convincere chi vorrà considerarli senza partito preso: a quelli che credono ancora l’esperanto un’utopia, noi domandiamo soltanto di guardarlo un po’ più davvicino».

Per saperne di più:

Agili introduzioni all’interlinguistica sono F. Gobbo, Interlinguistica ed Esperantologia. Pianificazione linguistica e lingue pianificate, Libreria Cortina, Verona 2009 e F. Fusco, Che cos’è l’interlinguistica?, Carocci, Roma 2008. Sull’idea di lingua universale si consiglia U. Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, Roma-Bari 1996 e L. Couturat; L. Leau, Histoire de la langue universelle, Hachette, Paris 1903. Sull’esperanto, un buon testo introduttivo, che tratta peraltro anche di sociolinguistica, è I. Caligaris, Una lingua per tutti, una lingua di nessun paese: una ricerca sul campo sulle identità esperantiste, Aracne, Roma 2016.

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