“Cosa studi?” è una delle domande poste più frequentemente fra studenti universitari che si conoscono per la prima volta. Mi sono accorto nel tempo che la semplice risposta “Chimica” faceva emergere un profondo stereotipo, legato anche a moderne serie televisive, e in particolare (ma non solo) quando mi interfacciavo con persone fuori dall’ambito scientifico. La figura del chimico è quella tradizionalmente più accattivante: una persona, spesso solitaria, con occhiali e camice bianco (incredibilmente candido) circondato da becher e beute contenenti liquidi di tutti i colori, e che si diletta a mescolare e osservare con sguardo immaginifico, come una recente campagna canzonatoria di professionisti del mondo del lavoro su Twitter ha evidenziato.

Seppur la chimica affondi le sue radici nell’antica pratica dell’alchimia, la concezione moderna di questa disciplina è notevolmente cambiata, specie nel secolo scorso. Questa trasformazione è principalmente dovuta a una serie di nuove scoperte che hanno aperto interi nuovi settori di studio che sono entrati con prepotenza nella comunità scientifica e nella quotidianità. Le leggi di Lavoisier, Avogadro e Boyle e tutti gli studi sui gas perfetti, per quanto essenziali, sembrano dei lontani ricordi, anche se spesso costituiscono la parte principale dei (pochi) corsi di chimica delle scuole secondarie superiori. E quindi la domanda essenziale di cui vorremmo dare una vaga risposta è: di cosa parlano i chimici oggi?

Da un punto di vista pratico, una delle rivoluzioni chimiche che  hanno trasformato radicalmente la nostra società è stata la scoperta dei polimeri. I polimeri sono molecole caratterizzate da un numero enorme di unità semplici che prendono il nome di monomeri collegati l’uno con l’altro. In natura esistono moltissimi esempi di polimeri essenziali per la vita, come il DNA oppure il glicogeno, ovvero un polimero di glucosio che il nostro organismo sfrutta per conservare questa preziosa fonte energetica.  I primi passi in questo nuovo mondo furono effettuati da Hermann Staudinger (Nobel per la Chimica nel 1953) che nel 1920 con il suo lavoro "Über Polymerisation" propose l’esistenza di queste molecole enormi formate da unità semplici ripetute, anche se il primo polimero completamente artificiale è dovuto a Leo Baekeland, che nel 1909 sintetizzò un antenato della moderna plastica, la bachelite.

La capacità di comprendere, ideare, sintetizzare e controllare il processo di polimerizzazione (il collegamento dei vari monomeri a formare la macromolecola) ha permesso l’entrata in scena di tutta una serie di nuovi materiali, tra cui la tanto amata e odiata plastica comunemente utilizzata. I polimeri possono assumere le più disparate proprietà a seconda di alcuni ingredienti essenziali, di cui citiamo quelli più semplici: le caratteristiche chimiche dei monomeri; la loro disposizione nello spazio; il numero di unità ripetute; la presenza o meno di alcuni additivi per migliorare le proprietà. A seconda di questi ingredienti possiamo avere materiali molto diversi: nylon, polimetilmetacrilato (anche noto come Plexigas) oppure PET, PVC e altri tipi di plastiche sono gli esempi più banali.

Cosa significa “controllare” il processo di polimerizzazione? Prendiamo il monomero più semplice possibile, ovvero l’etilene. È una molecola formata da due atomi di carbonio “C” e quattro di idrogeno “H” con formula chimica CH2=CH2, ad indicare che il legame tra i due carboni è doppio. Nel processo di polimerizzazione, il legame doppio diventa singolo e si forma un legame con un atomo di carbonio di un’altra molecola di etilene, in formule CH2=CH2 + CH2=CH2 → CH3-CH2-CH=CH2, dove si vede che gli idrogeni si spostano di conseguenza per permettere a ogni carbonio di avere in totale quattro legami. Avendo moltissime molecole di etilene, che tipologie di polietilene (PE) possiamo ottenere?Immagine 0Illustrazione 1: Tipologie di polietilene (PE) che si possono ottenere per legame dei monomeri. Si distinguono in alta densità (HD), lineare a bassa densità (LLD) e a bassa densità (LD).

Il punto fondamentale da cui si originano le differenze è che una molecola di etilene può attaccarsi nel modo in cui abbiamo descritto sopra a ogni atomo C che possiede almeno un H da cedere per permettere di formare il legame. Quindi si può legare anche a un C interno a una catena di molecole, non necessariamente ad un’estremità, e questo genera delle ramificazioni. In illustrazione 1 si vede l’effetto di queste ramificazioni: se sono poche e molto corte si ha un PE ad alta densità (HDPE), molto denso perché questi polimeri essendo lineari riescono ad impaccarsi bene tramite le forze intermolecolari; si ha poi il PE lineare a bassa densità (LLDPE), in cui le ramificazioni sono un po’ di più ma comunque molto corte, quanto basta per ridurre al minimo le forze intermolecolari; nei casi più estremi le ramificazioni possono essere più lunghe e complesse, generando il PE a bassa densità (LDPE). Queste differenze strutturali implicano anche proprietà diverse, ad esempio l’HDPE è più resistente e più impermeabile degli altri due. Quindi, mentre i PE a bassa densità vengono usati maggiormente per la produzione di film protettivi da accoppiare con altri materiali, l’HDPE viene usato per contenitori di sostanze più delicate (ad esempio solventi chimici) o mobilio di plastica (per la sua maggiore resistenza). Quindi il controllo della successione dei monomeri è un passaggio fondamentale nella sintesi dei polimeri, e spesso questo controllo viene garantito dalla presenza di particolari molecole dette catalizzatori in grado di veicolare correttamente i monomeri nella posizione desiderata, permettendo inoltre di ridurre il costo della sintesi e di velocizzare il processo. Proprio la scoperta di alcuni catalizzatori per la sintesi di polimeri di propilene (CH2=CH-CH3, molto simile all’etilene) hanno permesso a Karl Ziegler e Giulio Natta di vincere il premio Nobel per la chimica nel 1963 “per le loro scoperte nel campo della chimica e della tecnologia dei polimeri”.

Abbiamo parlato di polimeri, ovvero una famiglia molto particolare e vasta di macromolecole. Adesso, facciamo un salto concettuale a qualcosa di opposto, cioè il mondo delle nanostrutture. Ci sono tantissime forme di sistemi “nano”, tutti accomunati dalla peculiarità di avere una dimensione tipica sotto i 100 nanometri, dove un nanometro corrisponde a un miliardesimo di metro. Possiamo avere ad esempio nanoparticelle (di forma circa sferica ma non necessariamente), nanofili o strutture bidimensionali, ovvero sistemi planari con uno spessore molto piccolo. Tra questi ultimi spicca il grafene, un sistema planare formato da soli atomi di carbonio con incredibili proprietà meccaniche e conduttrici; il suo isolamento è valso il premio Nobel per la Fisica del 2019 a Andre Konstantinovič Geim e Konstantin Novoselov, che per primi sono stati capaci di ottenere questo materiale particolare.

Il primo a parlare di sistemi “nano” fu Richard Feynman nel 1959, il cui concetto è riassumibile nella massima “There's plenty of room at the bottom” (ovvero “C’è abbondanza di spazio là sotto”), suggerendo così che fosse possibile manipolare direttamente atomi e molecole anche a bassissime dimensioni. Il nome “nanotecnologia” venne tuttavia introdotto dal professor Norio Taniguchi solo nel 1974, come la scienza in grado di “separare, consolidare e deformare i materiali un atomo o una molecola alla volta”.

A causa della loro dimensione, i sistemi nanostrutturati presentano proprietà molto interessanti. Un esempio “colorato” è dato in Illustrazione 2 da sospensioni di nanoparticelle di oro (simbolo “Au”) di diametri differenti in un solvente: si vede come all’aumentare della dimensione media delle particelle il colore cambia radicalmente, ed è molto diverso dal giallo oro.Immagine 1Illustrazione 2: Variazione del colore di nanoparticelle di oro in sospensione all'aumentare delle dimensioni.

Diverse ricerche effettuate su database specializzati hanno evidenziato che dai primissimi anni del XXI secolo le pubblicazioni scientifiche riguardanti "nanoparticle" e "graphene" hanno conosciuto un vero e proprio boom ed è chiaro l'incredibile aumento di interesse nella comunità scientifica e industriale nel giro di pochissimi anni, dovuto al fatto che moderni ed efficienti metodi di sintesi e le fantastiche proprietà di questi materiali continuano a stimolare la ricerca.

A cosa è dovuta la variazione delle proprietà come il colore con la dimensione delle nanoparticelle?  Si parte dalla considerazione che le superfici sono elementi molto reattivi di un materiale. Difatti gli atomi più “esterni”, non essendo circondati dai loro simili come quelli interni, sono “incompleti” e quindi più reattivi nei confronti della radiazione elettromagnetica o di altre specie chimiche. A questa considerazione si va ad aggiungere un aspetto pratico, ovvero che a parità di volume, tante piccole sfere hanno una superficie totale più grande di poche sfere grandi. Pertanto i sistemi nanostrutturati avendo una dimensione tipica molto piccola tendono ad amplificare moltissimo il rapporto area su volume, e da qui si originano le loro peculiarità.

Grazie a metodi di sintesi efficienti e alla possibilità di manipolare le proprietà delle nanoparticelle, esistono tantissime applicazioni: ottiche (sonde, costruzione di LED), elettriche (microconduttori, processori), magnetiche (veicolazione di farmaci per mezzo del campo magnetico) e meccaniche. Uno degli esempi più immediati è dato da nanoparticelle di biossido di titanio (in formule TiO2), utilizzato come additivo per le vernici che ricoprono le pareti delle sale operatorie. Queste nanoparticelle sotto l’azione della luce ultravioletta sono in grado di disinfettare gli ambienti, eliminando i batteri grazie al processo di fotocatalisi: la nanoparticella si eccita e genera delle specie radicaliche, ovvero con elettroni spaiati, estremamente reattivi in grado di degradare completamente i microbi presenti, permettendo di effettuare trattamenti chirurgici in ambienti più igienici e sterilizzati.

Abbiamo dunque visto che la chimica moderna si è appassionata a nuovi argomenti che hanno introdotto tutta una gamma di novità: nuovo lessico, nuove metodologie di sintesi, nuovi materiali e nuovi ambiti di applicazione. Accanto a queste scoperte, aggiungiamo un ulteriore tassello che ancora di più si allontana dall’idea “popolare” di chimica di cui accennavamo, ovvero la chimica teorica e computazionale. Questo moderno settore di studio pone le sue radici nella meccanica quantistica e ha come scopo ultimo lo sviluppo di modelli e algoritmi in grado di riprodurre e prevedere proprietà di sistemi reali tramite l’ausilio del calcolo.

La prima grande rivoluzione è il desiderio di prevedere le proprietà della materia utilizzando il calcolo computazionale. Infatti, pur esistendo moltissime leggi empiriche che si sono sviluppate con l’esperienza ed in grado di dare una stima del comportamento di alcuni composti, la meccanica quantistica permette ad oggi di utilizzare un formalismo unitario per scrivere le nostre equazioni, risolvibili in modo numerico.

La seconda grande rivoluzione è di natura pratica, ovvero la possibilità per il chimico di utilizzare un nuovo laboratorio (il computer) in cui testare i propri composti usando la teoria prima di farlo nel laboratorio reale.

Sulla carta quindi la chimica teorica è in grado di prevedere con un certo livello di accuratezza l’energia e le proprietà di molecole o sistemi specifici: ciò significa che ad esempio andando alla ricerca di un nuovo principio attivo per un farmaco, sarebbe possibile avere una stima dell’efficacia di una certa molecola senza doverla necessariamente sintetizzare in laboratorio, una pratica delicata e a volte estremamente costosa che rappresenta il passaggio fondamentale nella ricerca farmaceutica. Dall’altra parte però, la potenza computazionale e la teoria non sono ancora in grado di fare calcoli su molecole molto grosse in tempi ragionevoli, quindi pur conoscendo la ricetta “esatta” è necessario inventare nuovi modelli e nuovi algoritmi che, a un livello di precisione più basso, siano in grado di darci le stesse informazioni più velocemente.

Un secolo fa la meccanica quantistica non era stata ancora formulata; le plastiche erano ancora un “gioco da laboratorio” (e il pianeta non se ne preoccupava ancora) e le nanostrutture non erano neanche immaginabili. Oggi ci troviamo con tutto questo (e in realtà con molto altro ancora), che si è intrufolato in modo ubiquitario in tutti gli ambiti della società, molto di più di quanto i chimici del secolo scorso potessero pensare. La domanda interessante dunque resta sempre la stessa: di cosa parleranno i chimici nel prossimo secolo? Sta a noi pensarlo, ed è in qualche modo auspicabile far sì che si inserisca qualche nuovo mattoncino per permettere ai chimici di un domani di darci qualcosa di completamente nuovo.

Per saperne di più:

E. Polo, C'era una volta un polimero, Apogeo 2013

G. M. Whitesides, "Reinventing Chemistry"

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