È un atteggiamento comune credere che il culto dei santi sia una sorta di eco paganeggiante, frutto di radicate superstizioni, la cosiddetta religione popolare. Si tende, dunque, a pensare che il cristianesimo del periodo tardo antico, abbia subito l’influsso del pensiero delle masse pagane che, pur convertite, non vollero in nessun modo abbandonare le loro tradizioni più profonde. Il culto dei santi così come lo conosciamo oggi, risulterebbe essere il frutto di un processo di rassegnazione della Chiesa cristiana primitiva verso le superstizioni del volgo. La storiografia si è appiattita su questa tesi. Tuttavia, attraverso un saggio molto interessante, lo storico Peter Brown cerca di indagare le ragioni più profonde e vere dell’origine di questo culto, discostandosi da tutta la tradizione che lo precede.

Ne Il culto dei santi, raccolta di letture ampliata che Brown tenne nel 1978 nella School of Divinity College a Chicago, egli indaga le ragioni più profonde della diffusione del culto dei santi e del grande successo che ottenne, criticando il modello di spiegazione più inflazionato per spiegare questo fenomeno: quello a “due piani”. Da sempre, infatti, si è operata nel corso dello studio della storia della religione cristiana, una netta distinzione tra una religione popolare e un’altra appartenente alle élites. Intendendo la prima come una serie di credenze, intrise di superstizioni e la seconda come l’unica portatrice della reale verità di fede. David Hume, nella sua Storia naturale della religione, ipostatizza questo concetto, per cui l’esperienza religiosa di un popolo viene ridotta alla ristretta cerchia intellettuale che la guidava. Tuttavia, questo modello che poteva essere convincente per i contemporanei di Hume, non lo è più per la nostra sensibilità moderna, tanto che gli studi storiografici relativi allo sviluppo delle religioni si concentrano sempre di più sulle usanze di quelle porzioni sociali di norma escluse, come le donne e i poveri. Inoltre, questo modello si basa sul pregiudizio illuministico del concetto di volgo, dando per scontato che sia un insieme di persone rozze e ignoranti, che ingenuamente credono in superstizioni pagane, profondamente radicate più per abitudine che per fede. Ma assumendo questo atteggiamento, non si tiene conto della vastità delle dinamiche della religione popolare, non riducibile, in modo semplicistico, a categorie stabili e ben definite. Si tende, poi, a parlare di grandi masse pagane convertite. In realtà non vi è alcuna prova storiografica di questa conversione di massa, anzi le prime comunità cristiane tardoantiche, dovevano avere un ristretto numero di fedeli. Brown dimostra come le premesse su cui si basa il modello “a due piani” siano labili e, dunque, non sufficienti per spiegare la vera origine del culto dei santi.

Brown ritiene che il primo effetto della diffusione del cristianesimo sia un abbattimento psicologico e topografico della fisionomia urbana di una città tardoantica. Nei secoli di sviluppo della civiltà pagana si viene a creare una netta distinzione fra il mondo dei vivi e quello dei defunti. I primi abitano l’interno della città, mentre i morti vengono relegati nel cimitero che, di norma, è situato fuori le mura cittadine. Esiste dunque una decisa separazione dei due mondi, che essendo prima di tutto culturale, si traduce anche nell’aspetto strutturale del luogo. Questa distinzione viene abbattuta dall’avvento del cristianesimo che pone una vita oltre la morte, instaurando un nuovo rapporto fra l’uomo e il divino, fenomeno che si esprime chiaramente nel culto dei santi. Ecco allora che i cimiteri vengono portati all’interno della città, divenendo un luogo di adorazione fondamentale per la venerazione di un martire. I due mondi, quello dei morti e quello dei vivi, tenuti lontani per millenni, si trovano ora a convivere nel medesimo spazio. Questo perché la cristianità, con la resurrezione, ha instaurato un rapporto completamente diverso tra la morte e il divino: questa esperienza diventa infatti una forte possibilità di tramite tra l’uomo e Dio.

Si è sempre pensato al culto dei santi come ad un adattamento cristianizzato del culto pagano degli eroi. Tuttavia, questa tesi non è più riconosciuta: i santi, infatti, godono di una stretta intimità con Dio, intimità che gli eroi non avevano mai potuto permettersi. Questo rapporto privilegiato con la divinità permette dunque a queste personalità di essere intermediari tra l’uomo comune e Dio. Inoltre, un aspetto del culto dei santi molto osteggiato dai pagani è proprio la venerazione dei sepolcri, con la conseguente entrata dei sepolcri nelle città. Anche Giuliano l’Apostata, nella sua politica anticristiana, giudica molto negativamente le processioni di reliquie che i cristiani compiono per onorare il martire, affermando che nei Vangeli non c’è alcuna giustificazione per questa prassi.

Si potrebbero, tuttavia, citare fonti cristiane che criticano, allo stesso modo,  la diffusione del culto dei santi come Agostino, Ambrogio e Vigilanzio. Tuttavia, i giudizi negativi che questi personaggi elaborano, non hanno ragioni teologiche, bensì puramente pragmatiche. Con il culto dei santi e la relativa entrata in città delle tombe, infatti, vengono a crearsi delle vere e proprie realtà che sfuggono alla giurisdizione vescovile. Inoltre, un altro fattore che preoccupa queste auctoritates cristiane è la potenza disgregante di un culto che si consuma su tombe a cui non tutti i cristiani possono accedere. Vengono, dunque, a crearsi situazioni in cui le reliquie dei martiri sono comprate da ricchi patroni che, di fatto, diventano i proprietari del corpo del santo. Brown, poi, specifica come si rintracci un continuum anche con la tradizione giudaica, in cui si veneravano defunti martirizzati e come non sia possibile individuare, nella cristianità tardo antica, a chi appartenesse il monopolio della strutturazione del culto. Risulta evidente come i problemi teologici fossero del tutto secondari e che, più che di rivalità fra un volgo superstizioso e un’élite illuminata, dobbiamo parlare di un conflitto tra patroni rivali.

Senza dubbio l’uomo ha sempre avvertito il bisogno di avere accanto a sé una figura invisibile che lo protegga: basti pensare alla figura del δαίμων (daimon), o a quella del genio, per finire con l’angelo custode. Tuttavia, i santi sono figure ben diverse e Paolino di Nola, nei suoi Carmina, intrattiene un dialogo con san Felice in cui spiega il motivo di questa differenza. I santi sono figure umane e storiche, non sono né dei, né angeli, e dunque devono la loro condizione privilegiata solo alle loro azioni. Inoltre, essendo intermediari con Dio, rappresentano una testimonianza continua della resurrezione.

Dunque, il culto dei santi non è un surrogato della venerazione di vecchie divinità pagane, bensì un fenomeno cristiano, risultato di un processo spontaneo, incentivato dalla Chiesa. Nei santi, i cristiani tardo antichi, furono in grado di trovare compagni di esistenza umana che testimoniano come esista una libertà di azione con cui potersi salvare e accedere alla vita eterna, privilegiando valori quali la giustizia, la misericordia e la solidarietà tra simili. Il mondo cristiano della tarda antichità resta una realtà ancora ricca di spunti di riflessione, che dimostra con quanta tenacia gli uomini siano stati in grado di trovare spazi in cui assicurarsi la presenza di una figura misericordiosa e umana che potesse essere un compagno di viaggio nella loro esistenza.

Per saperne di più:

Per un approfondimento della nascita del culto dei santi e delle relazione tra pagani e cristiani si consiglia la lettura dei seguenti testi: Il culto dei santi (Torino, Einaudi, 2002) e Genesi della tardo antichità (Torino, Einaudi, 2001) entrambi scritti da Peter Brown.

Immagine di Michal Mrozek da Unsplash

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